L’Azienda sanitaria delle Marche “condannata” perché non vuole dare la morte a un tetraplegico che la chiede? Dopo la vicenda di “Mario”, un altro tentativo di spingere verso il diritto di morire “Antonio” deve morire di suicidio assistito? Ecco cosa dice il tribunale:
Questa è la storia di “Antonio” (non è il suo vero nome, per ovvia privacy), 43 anni, marchigiano: il 14 giugno 2014 durante una trasferta di lavoro in provincia di Catania ha un drammatico incidente stradale che lo rende tetraplegico, da allora in tutto dipendente dall’assistenza continua altrui. Logorato da una condizione che ritiene insostenibile, ora chiede di poter accedere al suicidio assistito, intenzionato ad andare in Svizzera per potersi uccidere se questa possibilità non gli sarà concessa in Italia. A sostenere la sua volontà di farla finita – come sempre, in questi casi – i radicali dell’Associazione Luca Coscioni, che ne sostengono la causa legale perché l’Asur (Azienda sanitaria unica regionale) delle Marche provveda a dargli la morte medicalmente assistita, invocando la sentenza 242 del 2019. Con quel verdetto, come si ricorderà, la Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi su un altro caso di sofferenza estrema come quello di dj Fabo, sottrasse alla punibilità dell’aiuto al suicidio (articolo 580 del Codice penale) alcuni casi circoscritti definiti dal verificarsi di quattro condizioni: patologia irreversibile, sofferenze intollerabili, trattamenti di sostegno vitale attivi e capacità di intendere e volere. La Corte definì il principio e lasciò doverosamente al Parlamento il compito di legiferare entrando nello specifico.
Ora un tribunale accoglie il ricorso dei legali di Antonio perché l’Asur accerti il ricorrere delle condizioni e si pronunci il Comitato etico territoriale. Punto. Ma l’Associazione Coscioni, che ha promosso la raccolta firme per il referendum sull’omicidio del consenziente e attende il pronunciamento della Consulta sulla sua ammissibilità il 15 febbraio, parla di «condanna» dell’Asur. Condanna della quale però nell’ordinanza del tribunale non c’è traccia. Una strategia di comunicazione, non nuova, per far credere che le istituzioni negano un diritto, come già avevano tentato di sostenere nel caso di “Mario”, anch’egli tetraplegico e intenzionato a ottenere la morte assistita, sul quale nel novembre 2021 dissero che sarebbe stato il primo italiano a ottenere il suicidio assistito. Non era così: senza una legge l’Asur e il Comitato etico non potevano muoversi al buio, e infatti la vicenda è ancora ferma. Intanto però si torna a parlare di “diritto a morire” mentre – pur essendo al cospetto delle sofferenze di due persone – non altrettanto impegno si pone a esigere il diritto a vivere anche la condizione di gravissima disabilità in modo rispettoso della dignità della persona.
Ma vediamo cosa dice il tribunale (civile) sul caso di Antonio, cominciando dal fondo. Il giudice non condanna niente e nessuno, come si è fatto credere, ma «ordina» all’Asur area vasta 4 (con sede a Fermo) di accertare se nel caso di “Antonio” ricorrano le condizioni indicate dalla Corte Costituzionale, ovvero se «sia persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili» e se «sia pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli». Aggiunge un’altra richiesta: verificare «se le modalità, la metodica e il farmaco prescelti siano idonei a garantirgli la morte più rapida, indolore e dignitosa possibile (rispetto all’alternativa del rifiuto delle cure con sedazione profonda continuativa, e a ogni altra soluzione in concreto praticabile, compresa la somministrazione di un farmaco diverso)». Previa a questo accertamento viene disposta l’«acquisizione del relativo parere del Comitato etico territorialmente competente»», lo stesso che nel caso di Mario proprio sul farmaco e le modalità di somministrazione si era dichiarato incompetente, in assenza di un protocollo di “morte assistita” che solo può scaturire da una legge nazionale.
Il tribunale accoglie solo questa istanza dei legali del paziente, respingendo invece la richiesta di «condanna dell’Asur alla debenza di una somma per ogni giorno di ritardo» perché «non appare sussistente il pericolo di un’ulteriore stasi da parte dell’Asur e del Comitato etico», che però nel caso di “Mario” insieme all’Assessorato alla Salute della Regione avevano fatto capire chiaro e che non ci si poteva attendere da loro di inventare un protocollo di morte mai praticato da nessuno in Italia.
E se la Corte Costituzionale – scrive ancora il tribunale civile – ha definito con la sua sentenza «una disciplina immediatamente applicabile, senza che si renda necessario l’intervento del legislatore e/o dei giudici per colmare la lacuna creata con la decisione costituzionale», tuttavia la sentenza della Consulta si ritiene «non abbia introdotto “un diritto a morire”, o un diritto a pretendere dallo Stato per tramite del sistema nazionale una prestazione di eutanasia». Dunque: si verifichi se sussistono le condizioni del paziente, ma senza che lo Stato abbia alcuno obbligo a dare la morte. Lo conferma il tribunale stesso quando dice che il verdetto della Consulta ha introdotto il «diritto del malato a richiedere alla struttura competente il procedimento per l’accertamento delle condizioni per l’operatività della causa di non punibilità». Non altro. Quindi non è corretto parlare di «diritto ad accedere alla morte assistita sancito dalla Corte costituzionale» come fa l’Associazione Coscioni nella sua nota ripresa dai media.
Ci si muove, com’è ormai chiaro, su un terreno dove mancano le regole, per il semplice motivo che il Servizio sanitario nazionale è conformato per garantire la salute e la cura dei cittadini. E non per farli morire.
Fonte: Francesco Ognibene | Avvenire.it