Achille Lauro, auto-battezzandosi sul palco di Sanremo in apertura del festival della canzone italiana, ha voluto rappresentare la sua rinascita, ribadendo, attraverso lo scimmiottamento del rito, che siamo fatti non per morire ma per rinascere, cioè per una vita eterna.
Ma che cosa è la vita eterna?
I Greci dicevano vita in due modi: zoé, la vita come mero essere viventi, e bíos, la vita che trova la sua realizzazione nella città, attraverso l’azione etica e politica. Anche Achille, l’eroe omerico, riceve una specie di battesimo: alla nascita viene infatti immerso nell’acqua del fiume degli Inferi, lo Stige, per essere reso invulnerabile, ma il tallone da cui la madre lo tiene sospeso resta asciutto. È un’immagine potente dell’aspirazione dell’uomo all’immortalità: la morte è il nostro tallone d’Achille.
Il cristianesimo assume, modifica e amplia questo orizzonte. Anche nel vangelo di Giovanni Cristo distingue il semplice essere in vita, ma con la parola psychè (il soffio vitale che finisce con la morte) e l’essere vivi, cioè avere in sé una vita che non muore mai, zoé: usa il termine che i Greci usavano per la vita naturale, ma lo trasforma. Dice che egli è venuto a rischiare «la propria vita» naturale (psychè) perché gli uomini «abbiano la vita (zoé) in sovrabbondanza» (Gv 10), cioè vita che non si esaurisce mai. La parola è infatti da lui unita in altri passi del vangelo all’aggettivo «eterna» (zoé aiónios), che non è la vita dopo la morte, altrimenti eterna non sarebbe perché comincerebbe per l’appunto dopo l’evento mortale. E allora che cosa è questa vita eterna?
La vita eterna di cui parla Cristo non è né la vita che hanno tutti gli esseri viventi (psychè), né la vita di impegno per ottenere la virtù e la conoscenza dei famosi versi dell’Ulisse dantesco (bíos), ma è la vita stessa di Dio che viene data all’uomo (zoé aiónios). La vita eterna non comincia dopo la morte ma c’è sempre, quel «per sempre» che invochiamo quando facciamo rara esperienza dell’eterno nella vita «di sempre», per esempio quando siamo innamorati.
Ma come può l’uomo ricevere costantemente questa vita eterna e non solo in momentanei bagliori? Secondo il cristianesimo proprio con il rito del battesimo (dal greco: immersione) in cui l’acqua è segno di ciò che avviene al battezzato: muore e rinasce.
Nel battesimo l’uomo della vita solo naturale muore, si lascia la morte alle spalle, e rinasce con la vita di Cristo, la vita eterna, non nel senso che non morirà (anche Cristo è morto), ma che, come è accaduto al Figlio di Dio, la morte non avrà mai l’ultima parola.
Il battezzato è «vivo» perché partecipa alla vita di Dio: tutti gli eventi di morte sono per lui episodi «di passaggio», cioè di parto, di rinascita. Il battesimo inaugura questa possibilità di rinascere sempre, ma è compito del credente renderla sempre più cosciente e attiva, realizzandola nella sua storia in modo unico e originale.
Quando Achille Lauro si auto-battezza, sulle note d’una Domenica profana, imita il rito ma al tempo stesso lo nega, perché il battesimo si riceve da altri, come la vita. Nel rito non sono io che dico «Io, Alessandro, mi battezzo» ma qualcuno dice «Alessandro, io ti battezzo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito».
Il mio nome viene pronunciato nell’Amore, che vuole preservare dalla morte l’amato. Chi non lo farebbe per la persona amata se potesse? La frase del battesimo è come sentirsi dire: «tu non devi mai morire».
Ecco, Cristo pretende di farlo a me.
Ci riesce?
Per quel che ne so posso dire di sì ed è la cosa di cui sono più grato alla vita.
Sono stato battezzato pochi giorni dopo la nascita, come se mi avessero aperto un conto in banca a credito illimitato, ma crescendo ho dovuto decidere liberamente se rinnovare il conto (Confermazione e Riconciliazione sono il rinnovamento maturo del battesimo). L’essere messo di fronte all’esito della vita naturale senza mezzi termini, mi ha protetto dall’illusione che la morte non esista e da quella di poter rendere invulnerabile, con le mie forze, la mia vita naturale. Ricevere la «vita eterna» mi spinge a mettere tutte le mie energie per amare la vita naturale, non come fine ma come occasione per far accadere quella eterna, in me e attorno a me, nel rapporto con il mondo e con gli altri.
Come me ne accorgo? Me la godo sempre, anche quando c’è poco da ridere, anche quando ho gli occhi pieni di lacrime. Da un lato non perdo mai la speranza, la fiducia e l’amore per la vita, anche quando faccio esperienza, in me e accanto a me, della morte: dolore, paura, rabbia, delusione, disincanto, smarrimento, stanchezza… mi accompagnano ma non sono mai solo e disperato nell’attraversare questi deserti provvisori.
Dall’altro guarisco a poco a poco dalla radice di ogni infelicità, l’individualismo, quella pretesa di poter essere felice da solo, con le mie forze e a prescindere dagli altri se non contro di loro.
Non sono ossessionato dalla sicurezza, ma spinto a rischiare la vita: per esempio voglio bene ai miei studenti non solo per motivi etici o professionali, ma perché attingo a un’energia non mia, quella di chi ama (sente la vita altrui come la cosa più preziosa) perché si sente sempre amato (sente la propria vita come la più preziosa: questo significa amare il prossimo come se stessi, cioè come si è amati).
Il battesimo è per me adrenalina erotica che rende la mia vita sempre attiva e creativa anche nei momenti di buio: se perdo tutto non perdo niente, perché ho già tutto. Non posso per questo dimenticare «La bacinella battesimale» il secondo capitolo di quel capolavoro che è la Montagna incantata di Thomas Mann, un romanzo che nel 1924 fa il punto su tutta la storia dell’Occidente. La bacinella è simbolo della vita che unisce il protagonista, Hans Castorp, ai suoi antenati: ospita infatti l’acqua per i battesimi della famiglia da più di un secolo. In quell’oggetto Hans vede lo scorrere del tempo che divora tutte le vite, ma anche la sua sconfitta che è sconfitta della morte: «una sensazione dalla quale aveva desiderato di essere nuovamente colpito: per amore di essa aveva tenuto a farsi mostrare l’oggetto ereditario, fisso e ad un tempo in moto».
Quella bacinella, in apertura di un libro che il narratore stesso definisce un «romanzo del tempo», cioè che ha il tempo come protagonista (o antagonista), è la chiave dell’intera storia: noi, tempo fatto carne, non siamo in cerca dell’immortalità ma della vita eterna.
Da Achille ad Achille.
Fonte: Alessandro D’AVENIA | Corriere.it