Dal 1° gennaio 2022 è entrata in vigore l’ennesima restrizione all’utilizzo del contante: la soglia massima è stata dimezzata, portandola, per i cittadini italiani, a 999,95 euro. Le motivazioni addotte sono le solite: contrasto all’evasione fiscale e alla criminalità organizzata. Intanto, però, aumentano i costi di transazione e si creano disagi, specialmente alle persone più anziane, limitando ulteriormente la libertà personale di tutti: ciò solleva legittimi dubbi sulla proporzionalità e sull’efficacia di tali misure rispetto agli obiettivi dichiarati. Una vera e propria “guerra al contante”: ne vale davvero la pena? Ma, soprattutto, è giusto?
Prosegue la tendenza alla restrizione nell’uso del contante. Il massimale precedente – in vigore nel periodo 1° luglio 2020-31 dicembre 2021 – era fissato a 2.000 euro, a sua volta già ridotto rispetto al limite precedente di 3.000 euro, per non parlare rispetto al massimale di 12.500 euro in vigore dal 27.12.2002 al 29.04.2008. Il primo tetto al contante era stato introdotto nel 1991, dal settimo governo Andreotti, ed era pari a 20 milioni di lire: la tendenza trentennale al ribasso è quindi evidente e molto marcata, indipendentemente dal governo di turno. Ai sensi della normativa antiriciclaggio, nel calcolo del massimale sono computate anche le operazioni in contante frazionate nel periodo di osservazione di 7 giorni; le violazioni sono colpite da sanzione amministrativa pecuniaria da mille a 50mila euro. Per scoraggiare ulteriormente l’utilizzo del contante, dal gennaio 2023 saranno anche introdotte delle sanzioni per gli esercenti sprovvisti di terminali per i pagamenti elettronici (i cosiddetti “POS”, l’acronimo inglese di “Point of Sale”, letteralmente “punto di vendita”). Facendo un confronto internazionale scopriamo che in Paesi importanti come la Germania non è previsto alcun limite, anche se è assai probabile che in tutta Europa saranno progressivamente adottati dei tetti sempre più stringenti e omogenei ai pagamenti cash: per rendere più efficaci le limitazioni nell’area, certamente; ma, soprattutto, come un modo per “educare” i cittadini all’utilizzo di strumenti digitali, e quindi tracciabili. Le motivazioni a supporto di tali continue limitazioni sono sempre le stesse: contrasto della criminalità organizzata e dell’evasione fiscale. Il mezzo è adeguato all’obiettivo?
Per quanto riguarda il primo punto, l’efficacia di tali restrizioni pare assai dubbia: anche la digitalizzazione crescente dei pagamenti, infatti, comporta dei rischi, dalle truffe e frodi online alle clonazioni di carte di credito ad altre attività illecite, come il cosiddetto cyber riciclaggio o cyber laundering. Per quanto concerne, invece, il contrasto all’evasione fiscale, pensare di riuscirci semplicemente ponendo un limite all’uso del contante appare illusorio. E, innanzitutto, non sarebbe forse opportuno domandarsi perché il fenomeno esiste? Il punto di partenza per contrastare efficacemente l’evasione dovrebbe essere quello di avere un’imposizione fiscale equa, rendendo così “meno conveniente” evadere: non “pagare tutti per pagare meno”, secondo il trito e demagogico slogan delle sinistre, ma più realisticamente “pagare meno per pagare tutti”, facendo emergere quell’economia “sommersa” che spesso è tale solo per sopravvivere. Per potere davvero abbassare il livello vessatorio del prelievo fiscale vigente in Italia – che schiaccia famiglie ed imprese, azzoppando la crescita economica e sociale del Paese – occorrerebbe iniziare a ridurre il perimetro di intervento dello Stato e tagliare la spesa pubblica, mentre invece entrambi continuano ad aumentare, complice anche la situazione di emergenza continua post-CoViD. Restringere il contante, con un approccio punitivo, non pare quindi essere una soluzione adeguata.
Al di là degli obiettivi dichiarati, a che cosa servono quindi tali misure liberticide? L’obiettivo finale della “guerra al contante” degli ultimi decenni, in atto in molti Paesi del mondo, sembra essere quello di andare verso la completa digitalizzazione dei pagamenti, nella prospettiva della cosiddetta cashless society:con la scomparsa definitiva del denaro contante, persino l’elemosina dovrà essere data e ricevuta a mezzo di smartphone, come già accade in Svezia, uno dei Paesi dove il contante sta scomparendo. L’epidemia CoViD-19 ha accentuato una tendenza alla digitalizzazione dei pagamenti già molto evidente, e destinata a rafforzarsi ancora. Al di là dei rischi già evidenziati di truffe e riciclaggio “informatico”, quali altri inconvenienti comporta un progetto di questo tipo?
Innanzitutto, oltre ai maggiori costi per gli utilizzatori e alle difficoltà per le persone anziane, più avvezze a servirsi di contanti, la digitalizzazione totale dei pagamenti configurerebbe un’evidente violazione della privacy: il tracciamento e l’analisi di tutti i flussi di pagamento, in entrata e in uscita, si presterebbe infatti non solo a controlli fiscali ma anche alla “profilazione” delle persone, nella prospettiva dei big data, sempre più utilizzati per analizzare i pattern comportamentali delle persone: oggi, a supporto di un marketing più personalizzato ed efficace, e comunque sempre più invasivo; un domani, se il potere politico lo vorrà, anche e soprattutto nella prospettiva del “controllo sociale”, per limitare la libertà delle persone consentendo o favorendo comportamenti ritenuti meritevoli e contrastandone altri ritenuti invece indesiderati.
In particolare, preoccupa l’abbinamento probabile della digitalizzazione dei pagamenti all’attribuzione della cosiddetta «identità digitale» a tutti i cittadini europei, secondo il progetto dell’Unione Europea: essa potrà «essere utilizzata in molti casi diversi, ad esempio per: usufruire di servizi pubblici, come richiedere un certificato di nascita o certificati medici oppure segnalare un cambio di indirizzo; aprire un conto in banca; presentare la dichiarazione dei redditi; iscriversi a un’università, nel proprio paese o in un altro Stato membro; conservare una ricetta medica utilizzabile ovunque in Europa; dimostrare la propria età; noleggiare un’automobile usando una patente di guida digitale; fare il check-in in albergo». Sul sito della Commissione Europea non viene specificato, ma è implicito che in assenza di identità digitale non si potrà più avere accesso ai servizi indicati, né a tutti gli altri che verranno progressivamente collegati in futuro a tale pass digitale. Da un punto di vista tecnologico nulla impedirebbe di spingersi al blocco dei pagamenti in uscita e in entrata per un soggetto ritenuto, per qualche motivo, “non meritevole”; un po’ come capita con il sistema cinese dei “crediti sociali”, dove al di sotto di un certo ranking al cittadino vengono inibiti l’accesso a determinati beni e servizi, e quindi ristretti i diritti. Se i pagamenti fossero effettuati e ricevuti a mezzo di una app installata sullo smartphone,o con altri canali comunque collegati all’identità digitale del soggetto, sarebbe facile e immediato bloccarli attraverso un’inibizione a livello informatico dell’ID account, cioè del codice identificativo attribuito a ciascuno: con l’utilizzo di algoritmi che incrociano tutti i dati rilevanti della persona, da quelli sanitari a quelli fiscali, in tempo reale e senza possibilità di appello. In linea teorica, potrebbe bastare essere in ritardo nel pagamento di una multa o di altro adempimento fiscale o per qualsiasi altra motivazione stabilita dal potere politico, per essere bloccati, se così venisse deciso dall’alto. Allo stato dell’arte della tecnologia si può fare, come già implementato con la “Certificazione verde COVID-19”, nella duplice versione, base e rafforzata.
Per dare un’idea dei rischi insiti nella digitalizzazione totale dei pagamenti, basti pensare anche alla nuova carta di credito dell’azienda fintech svedese Doconomy che si blocca automaticamente quando gli acquisti superano una certa soglia prefissata di emissioni massime di anidride carbonica, calcolate in base ai propri acquisti: la cosiddetta «impronta ecologica» di ciascun cittadino, uno dei punti centrali nel progetto di transizione energetica in atto, potrebbe quindi essere oggetto di monitoraggio, portando a costi, limiti o blocchi al superamento di determinate soglie. Un tempo si diceva, scherzosamente, che i governi vorrebbero tassare anche l’aria che respiriamo: la rivoluzione tecnologica e digitale potrebbe renderlo possibile.
L’introduzione del cosiddetto “euro digitale” – di cui esiste un avanzato progetto-pilota dell’UE, con obiettivo di partire nei prossimi 3-4 anni – insieme al contestuale e graduale ritiro del contante, andrebbe a completare il quadro. Sarebbe l’ultimo tassello nella gestione politica del denaro: già ora, in regimi monetari fiat in monopolio legale, gli Stati possono attuare politiche inflazionistiche che falsificano il potere d’acquisto del denaro, svilendolo nel corso del tempo; un domani, con le Central Bank Digital Currencies (CBDCs) – le divise digitali delle Banche Centrali – potrebbero essere imposti anche tassi nominali negativi sui conti correnti, fissate delle scadenze temporali per incentivare l’utilizzo del denaro o anche ristretta la spendibilità del denaro a certi “panieri” di beni e servizi pre-definiti, escludendone altri. In tal modo il risparmio – già minacciato dai rendimenti reali negativi derivanti da rendimenti nominali compressi dalle politiche monetarie ultra-espansive e da inflazione in forte rialzo – sarebbe ulteriormente scoraggiato. Le CBDCs consentirebbero poi di introdurre facilmente il “reddito universale di cittadinanza” e, in presenza di future emergenze sanitarie come la CoViD-19, di effettuare trasferimenti ai cittadini di denaro elettronico su account caricati sugli smartphone, in stile helicopter money: sarebbe un’arma in più per accelerare verso il nuovo paradigma di “Stati assistenzialistici” e di governance centralizzata, aumentando la dipendenza del cittadino dalle pubbliche autorità.
Insieme al risparmio e alla proprietà privata, il denaro contante va protetto perché rappresenta un importante presidio di libertà, di privacy e di autonomia personale e familiare. Per tutti, soprattutto per i più deboli: pecunia non olet.
Fonte: Maurizio Milano | AlleanzaCattolica.it