uongiorno prof, nel nostro liceo la protesta si è tramutata, dopo un giorno, da occupazione ad autogestione, a seguito di un impegnativo dialogo con la nostra dirigente scolastica. Benché siamo riusciti a far trasparire i nostri disagi anche a livello mediatico, mi chiedo se le promesse concesse non siano altro che un sedativo temporaneo per lasciar poi tornare tutto come prima. Per questo le scrivo: volevo chiederle un consiglio su come riuscire a far sì che queste voci non si spengano con la fine delle occupazioni ma scalfiscano anche solo la superficie dei problemi del sistema scolastico». Ho ricevuto queste righe da una ragazza del liceo Beccaria di Milano, città in cui l’occupazione di molte scuole mostrano un dato rilevante: alcuni dirigenti e docenti collaborano con i ragazzi, ritenendo inaccettabile per la scuola il «ritorno alla normalità», sia perché significa ignorare che cosa è accaduto negli ultimi mesi, sia perché quella normalità non c’era prima della pandemia, come ho scritto nell’articolo di tre settimana fa «La scuola brucia». Questa collaborazione trasforma l’occupazione in co-gestione: gli adulti sono necessari. La dirigente del Beccaria ha infatti detto in un’intervista sul Corriere: «Si percepisce la domanda forte di collaborazione, di avere gli adulti vicini. Ora tocca a noi intercettare questo bisogno e tradurlo in atti concreti. Un’immagine mi è rimasta: quando nel pomeriggio chiedevo ai ragazzi di lasciare la scuola. È stato faticoso: non perché volessero occupare in senso politico, ma li vedevo felici di stare insieme, parlare. Riconoscere quel luogo come uno spazio di incontro che gli appartiene». Parole profetiche. Perché?
I ragazzi non occupano la scuola ma si occupano della scuola. Non sequestrano lo spazio pubblico (spesso inteso come «di nessuno»), ma lo liberano rendendolo relazionale: l’edilizia scolastica non può essere ancora concepita come a inizio ‘900. Non sono rivoluzionari, ma riformatori. Ri-forma (il ri- indica qui intensità dell’azione da compiere) vuol dire travaglio per partorire la forma più adeguata a ciò che la scuola potrebbe essere: spazio di relazione tra le generazioni da abitare con maestri capaci di orientare «i nuovi» alla scoperta di sé e del mondo attraverso l’esempio, la cultura e il lavoro. In queste forme di co-gestione non vedo violenza de-generativa (risentimento contro la generazione precedente), ma energia con-laborativa tra le generazioni, cioè l’unica cura a ciò che il filosofo Charles Taylor nel 1991 definiva «Il disagio della modernità» nel suo libro omonimo.
L’io moderno è talmente interiorizzato tre mali sociali da non combatterli più e da soffrirne senza riconoscervi la radice della propria infelicità, infatti se esistesse un tampone per la psiche risulteremmo drammaticamente «positivi»: individualismo, razionalità strumentale, impotenza politica.
1. L’individualismo è la mancanza di fini superiori al semplice «pienessere», che ha fatto coincidere la felicità con il consumo e spazzato via l’orizzonte eroico (destino, vocazione) ed erotico (desiderio, energia) della vita (il problema ecologico è umano prima che ambientale: le patologie che esauriscono i corpi dei giovani ricalcano quelle dell’esaurimento della terra).
2. La riduzione della razionalità all’ambito meramente strumentale porta a fare scelte sulla base del solo criterio costi-benefici (ha valore solo ciò che è utile e fa guadagnare), da cui il predominio di economia e tecnica sulla libertà: le persone non sono soggetti di possibilità inedite (creatori di vita) ma oggetti di aspettative e di sorveglianza (umane “risorse” da controllare e da cui estrarre prestazioni e dati).
3. L’impotenza è l’impossibilità di controllo politico del proprio destino e di miglioramento delle condizioni di vita sociale. L’incrocio di queste tre patologie è alla radice del populismo, affrontato spesso con discorsi moralistici da un umanesimo esangue, quando si tratta di una reazione violenta e irrazionale a un malessere esistenziale, il grande psicanalista James Hillman ha detto infatti che ormai l’inconscio da dentro si è spostato fuori, nei meccanismi sociali.
La lettera della studentessa individua perfettamente questi tre virus di cui i ragazzi sono i «sintomi» più evidenti. «Occupano» per far vedere le ferite («siamo un corpo sociale non individui!»), trovare la cura («siamo persone non risorse!») e renderla efficace nel tempo e per tutti («vogliamo rilevanza politica!»): mettono in discussione il sistema di istruzione «moderno» che, avendo scambiato l’apprendimento con la sua quantificazione, la conoscenza con il potere, la scoperta e la cura di sé con la carriera, li ha resi «consumatori di programmi» ed «erogatori di prestazioni» (sistema che infatti ha pensato di risolvere l’emergenza pandemica solo «tecnicamente», con banchi e schermi).
Si ribellano al Ministero dell’Ostruzione: ostacolo burocratico al fiorire delle vita di studenti e maestri. Un solo esempio, tra i motivi delle occupazioni: al 31 gennaio non sapevamo ancora nulla sull’esame di maturità e, dalla bozza dell’ordinanza si scopre che l’esame ignora i mesi di didattica in dad, provocando la reazione dei ragazzi, sollecitati anche dal tema della tutela della salute psicologica e fisica a scuola. Il consiglio che do a questa ragazza è proprio quello che il loro gesto contiene: continuate a «occuparvi» della scuola, scegliendo come alleati adulti capaci di mettersi in gioco (un dirigente ha dormito a scuola sulla sua poltrona) senza paternalismo e chiacchiere. Assediate dirigenti e docenti, pretendendo periodica verifica delle azioni condivise. Solo così dal Ministero dell’Ostruzione potrà nascere quello della Costruzione, fatto da chi a scuola ci vive tutti i giorni. In Italia siamo quasi 10 milioni su 60 a «fare» scuola (9 milioni gli studenti e 1 milione tra docenti e personale amministrativo): non ci vuole molto a capire che questa è una riforma umana, sociale e politica prioritaria. La salute di un Paese non si misura dal suo Pil ma dai due luoghi in cui si prende cura della vita (da cui poi il Pil dipende), ospedali e scuole, luoghi dove la persona dovrebbe essere vivi-ficata e non morti-ficata. Noi a che punto siamo?
Fonte: Alessandro D’AVENIA | Corriere.it