«La più intima missione cui per quarant’anni avevo dedicata ogni energia, la pacifica federazione dell’Europa, era andata in rovina; quello che io avevo temuto più che la mia stessa morte, la guerra di tutti contro tutti, era ormai scatenata».
Parole scritte allo scoppio della Seconda Guerra mondiale da uno scrittore che amo, Stefan Zweig, nel suo capolavoro del 1941 Il mondo di ieri: ricordi di un europeo. Pochi mesi dopo, nella notte tra il 22 e il 23 febbraio 1942, fu trovato morto a Petropolis, in Brasile, dove si era rifugiato. Viennese, apolide da quando Hitler aveva preso l’Austria, i suoi libri erano stati bruciati e lui perseguitato. Quella notte di 80 anni fa, marito e moglie si erano suicidati, anche se alcuni sostengono che «siano stati suicidati» dai nazisti.
Zweig aveva chiamato «Europa» la sua villa a Salisburgo, dove aveva scritto memorabili biografie e racconti di personaggi di tutte le nazioni europee (Balzac, Dostoevskij, Nietzsche, Freud…) proprio per cogliere il genio di ognuna: sognava un’Europa unita dai suoi fondatori spirituali. Nei Ricordi la narrazione si ferma simbolicamente il 1° settembre del 1939, giorno dell’invasione della Polonia da parte dei Tedeschi: era finito il sogno umanistico dell’Europa unita. Affido alle sue parole (la coincidenza del giorno della sua morte con l’invasione dell’Ucraina mi ha portato a farlo) il requiem per un’Europa che, unita apparentemente dalla moneta, è stata in questi anni incapace, per mancanza di cultura della pace, di respirare con i suoi due polmoni, occidente e oriente, dall’Atlantico agli Urali. Perché?
«Sono stato contemporaneo delle due più grandi guerre dell’umanità. Nel periodo prebellico ho conosciuto il grado e la forma più alta della libertà individuale, per vederla poi al più basso livello cui sia scesa da secoli; sono stato festeggiato e perseguitato, libero e legato, ricco e povero. Tutti i cavalli dell’Apocalisse hanno fatto irruzione nella mia vita, carestie e rivolte, inflazione e terrore, epidemie ed emigrazione; ho visto crescere e diffondersi sotto i miei occhi le grandi ideologie delle masse, il bolscevismo in Russia, il fascismo in Italia, il nazionalsocialismo in Germania, e anzitutto la peste peggiore, il nazionalismo che ha avvelenato la fioritura della nostra cultura europea».
La peste dell’Europa viene, per Zweig, dal male comune a tutte queste ideologie: il nazionalismo, corruzione del sano amor di patria che permette alle nazioni di cooperare (mettere in comune il meglio) e non di competere (affermare la propria potenza). Ci riempiamo la bocca della parola pace, ma poi a partire dal nostro sistema educativo costruiamo la cultura sulla competizione e non sulla cooperazione. Per educare alla pace bisogna prima che ciascuno scopra la sua unicità e poi che capisca che, per realizzarla, la strada migliore è metterla a disposizione di altri. Se tutto è invece centrato sull’affermazione della propria potenza, sin da bambini impariamo a vedere accanto a noi ostacoli, non alleati necessari a raggiungere obiettivi più grandi di quelli perseguibili da soli. Questo vale per gli studenti di una classe come per le nazioni di un continente: non saranno unite dalla stessa moneta ma solo dalla qualità delle loro relazioni.
Papa Francesco ha affermato in una recente intervista che se per un anno si smettesse di produrre armi si potrebbe dare cibo ed educazione a tutto il mondo gratuitamente. Ma può farlo solo chi smette di affrontare la paura di non esistere con la ricerca della propria autoaffermazione (i nazionalismi costruiscono narrazioni abnormi sull’identità proprio perché non ce l’hanno).
La crisi attuale sta portando invece verso nuovi armamenti: non è cambiato nulla in decenni di pace apparente, perché non ci si è realmente avvicinati agli altri. Proprio ciò che portò alla Prima Guerra mondiale un’Europa illusa dal proprio benessere: «Nessuno credeva a guerre, rivoluzioni e sconvolgimenti. Ogni atto radicale e violenza apparivano impossibili nell’età della ragione… In questa commovente fiducia c’era una presunzione pericolosa. L’Ottocento, col suo idealismo liberale, era convinto di trovarsi sulla via diritta ed infallibile verso il migliore dei mondi possibili. Guardava con dispregio le epoche anteriori con le loro guerre, carestie, rivoluzioni, come fossero state tempi in cui l’umanità era ancora minorenne e insufficientemente illuminata.
Tale fede in un «progresso» ininterrotto ed inarrestabile ebbe per quell’età la forza di una religione. Non si temevano ricadute barbariche come le guerre tra popoli europei… I nostri padri erano tenacemente compenetrati dalla fede nella irresistibile forza conciliatrice della tolleranza. Lealmente credevano che i confini e le divergenze esistenti fra le nazioni avrebbero finito per sciogliersi in un comune senso di umanità, concedendo così a tutti la pace e la sicurezza. Oggi è facile deridere l’illusione ottimistica di quella generazione accecata dal suo idealismo: illusione che il progresso tecnico dovesse immancabilmente avere per effetto un non meno rapido miglioramento morale».
Le parole di Zweig sembrano profetiche ma sono soltanto attuali perché siamo fermi lì: il progresso tecnico e il benessere a cui affidiamo sempre di più le nostre ansie di salvezza ci dà l’illusione di diventare migliori, ma non è così. L’uomo non si salva grazie al progresso esteriore ma grazie a quello interiore: quando, per esistere, smette di cercare il potere e quindi la potenza, e si mette a servire. A tal proposito per me sono centrali le parole e la vita di Cristo: «Voi sapete che coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le dominano, e i loro grandi esercitano su di esse il potere. Fra voi però non è così; ma chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti. Il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire» (Mc 10).
Utopia? Nell’ultimo capitolo del Mondo di ieri, intitolato «L’agonia della pace», Zweig racconta la sua amicizia con Freud: «Avevo parlato spesso con Freud dell’orrore del mondo hitleriano e della guerra. Non era per nulla stupito da simile spaventoso scoppio di bestialità. L’avevano sempre accusato, mi diceva, di essere un pessimista, perché aveva negato il predominio della civiltà sugli istinti; ora si poteva vedere orrendamente confermata la sua affermazione, essere cioè indistruttibile nell’animo umano l’elemento barbarico e l’istinto elementare dell’annientamento. Forse nei secoli futuri si sarebbe potuta trovare una forma per domare tali istinti, almeno nella vita sociale dei popoli, ma essi permanevano nella vita quotidiana e nella natura più intima quali energie indistruttibili e forse anche necessarie al mantenimento della tensione vitale».
Non sembra possibile domare (con il diritto, le armi, le sanzioni, le organizzazioni internazionali…) questi istinti nelle relazioni tra i popoli, proprio perché questi istinti appartengono a tutti, da chi guida nel traffico a chi governa una nazione.
Questi istinti sono necessari alla tensione vitale, come dice Freud, ma non è vero che questa tensione si realizza meglio nella competizione che nella cooperazione (lo dice anche la biologia). Credo che qui stia l’enorme vuoto educativo della nostra cultura e la sfida per il futuro: per unirci non basteranno mai le soluzioni tecniche (dalla moneta agli eserciti) che non sono altro che maschere della competizione.
Allo scoppio della Seconda Guerra mondiale di cui ignorava l’esito finale Zweig scrive: «Mi fu chiaro: ancora una volta il passato era morto, il lavoro compiuto distrutto, l’Europa, la nostra patria per la quale avevamo vissuto, era distrutta e per un tempo che andava ben al di là della nostra vita. Si iniziava qualcosa di nuovo, un’altra epoca, ma quanti inferni e quanti purgatori era necessario attraversare per giungere sino a lei!».
Io non so quanto questa guerra ci toccherà da vicino, ma non posso ignorare che a noi è affidato il compito e il coraggio di aprire un’epoca nuova sulle macerie dell’attuale che poi sono le stesse del mondo di ieri.
Lì dove siamo, oggi, a partire da come tratteremo chi ci sta accanto, da come collaboreremo con colleghi, da come staremo nel traffico. Solo questo potrà liberarci dal pessimismo che attanaglia il nostro cuore.
Fonte: Alessandro D’AVENIA | Corriere.it