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ULTIMO BANCO – 113. L’umano nell’uomo

Lavorando al libro negli ultimi dieci anni ho pensato a te costantemente. Il mio romanzo è dedicato al mio amore per il popolo. Questa è la ragione per cui è dedicato a te. Per me tu sei l’umanità e il tuo terribile destino è il destino dell’umanità in questi tempi inumani».

Queste parole dello scrittore ucraino Vasilij Grossman, in cui si riferisce al suo capolavoro «Vita e destino», sono tratte da una lettera scritta alla madre nel 1961, benché fosse morta vent’anni prima. Le scrisse infatti due lettere, una a 10 e una a 20 anni dalla morte, cercando di elaborare un lutto impossibile: di lei non era rimasto nulla, neanche la tomba.

Le sue parole mi sono tornate in mente vedendo l’immagine di una madre con in braccio un bambino in fuga da Kiev o quella della madre incinta, ferita e scampata al bombardamento dell’ospedale di Mariupol in cui era ricoverata per l’imminente parto.

In sua madre Grossman vede l’umanità intera. Il suo non è un ricordo sentimentale: cronista dell’assedio di Stalingrado e delle imprese dell’Armata rossa contro Hitler, aderì con convinzione al progetto imperialistico sovietico di Stalin, lo stesso rievocato da Putin. Ma quando, nel 1944, tornò nella sua città natale, Berdicev, in Ucraina, scoprì che la madre era stata uccisa dai nazisti insieme ad altri trentamila ebrei, con la collaborazione di molti ucraini in cui covava la stessa violenza.

L’evento e poi l’orrore che vide nella Russia stalinista incrinarono la sua fede politica: aveva capito che nazismo e comunismo erano figli della stessa volontà di potenza e ciò che salva l’umanità non sono le «ideologie del bene» ma «i buoni». Lo narra in ogni pagina di Vita e destino, il capolavoro dedicato proprio alla madre che, sequestrato dalla polizia sovietica, fu preservato dall’amico fisico Andrej Sacharov nei microfilm dei suoi esperimenti di laboratorio e portato fuori dai confini sovietici: uscì in Svizzera nel 1980, in Italia nel 1984, quando l’autore era morto in disgrazia ormai da vent’anni.

Nella prima delle due lettere alla madre Grossman scrive: «Carissima Mamma, sono venuto a sapere della tua morte nell’inverno del 1944. Sono arrivato a Berdicev, sono entrato nella casa dove avevi vissuto e ho capito che eri morta. Eppure già dal settembre 1941 sentivo nel mio cuore che te ne eri andata. Mentre ero al fronte, una volta ho fatto un sogno: entravo in una stanza, che sapevo essere tua, e vedevo una poltrona vuota. Sono stato a lungo a osservare la poltrona vuota e quando mi sono svegliato sapevo che eri morta. Non conoscevo la terribile morte che avevi patito. Ne venni a conoscenza dopo aver chiesto a quelli che sapevano del massacro avvenuto il 15 settembre 1941. Ho provato a immaginare il tuo assassinio centinaia di volte e il modo in cui sei andata incontro alla tua fine. Ho provato a immaginare l’uomo che ti ha uccisa. E stata l’ultima persona che ti ha vista viva. So che hai pensato a me per tutto il tempo… Oggi ti penso proprio come se fossi viva, come quando ci siamo visti per l’ultima volta e come quando da piccolo ti ascoltavo mentre leggevi ad alta voce. E sento che il mio amore per te e questa terribile agonia sono ancora oggi uguali e rimarranno con me fino alla fine dei miei giorni».

Le due lettere sono state trovate dai biografi di Grossman (John e Carol Garrard, Le ossa di Berdicev) nel fascicolo a lui dedicato negli archivi del KGB, con la foto di corpi gettati in una fossa comune scattata dopo la fucilazione. Vita e destino è un tributo alla madre. Indimenticabile il capitolo in cui immagina che il suo alter ego narrativo, Viktor Strum, riceva l’ultima lettera proprio da sua madre, non a caso ebrea mandata nel ghetto di Berdicev come quella di Grossman e consapevole della fine ormai vicina: «Sento piangere delle donne, per strada, sento i poliziotti che imprecano; guardo queste pagine e mi sento in salvo da questo mondo tremendo e pieno di dolore. Come posso finire questa lettera? Dove troverò le forze, figlio mio? Ci sono forse parole d’uomo in grado di esprimere il mio amore per te? Ti bacio, bacio i tuoi occhi, la tua fronte, i capelli. Ricordati che l’amore di tua madre è sempre con te, nella gioia e nel dolore, e che nessuno potrà mai portartelo via. Viktor, mio caro… È l’ultima riga dell’ultima lettera che ti scrive tua madre. Vivi, vivi per sempre».

L’amore della madre fu per Grossman la salvezza nell’orrore e il cuore del suo capolavoro: che cosa salva l’uomo? Che cosa gli consente di avere vita e non soccombere al destino? Non trovò la risposta in nessuna filosofia, religione, morale o fede politica, ma nell’esempio materno, a lei infatti Grossman scrive così nella seconda lettera-anniversario: «Piango sulle tue lettere perché in esse vedo la tua bontà, la purezza del tuo cuore, il tuo destino terribile e amaro, la tua onestà e generosità, il tuo amore per me, la tua attenzione nei confronti del prossimo e la tua stupenda intelligenza. Non ho timore di nulla, perché il tuo amore è con me e perché il mio amore rimarrà con te per sempre». La parola «per sempre» chiude sia la lettera immaginaria della madre a lui nel romanzo sia la lettera vera di lui alla madre nell’anniversario della morte. Un per sempre reso possibile solo dall’indistruttibile amore materno, come Grossman, benché non credente, scrisse nel 1955 nel suo racconto più bello, La Madonna Sistina (consiglio di leggerlo in queste ore), in cui, guardando il famoso quadro di Raffaello della Madonna con in braccio il bambino, custodito a Dresda, ricorda le donne che ha visto proteggere i figli nell’orrore della guerra, madri che restarono madri, pronte a «ri-dare» la vita, e così scopre ciò che salva l’uomo e preserva la vita dal destino: «La forza della vita, la forza dell’umano nell’uomo è enorme, e nemmeno la forma più potente e perfetta di violenza può soggiogarla. Può solamente ucciderla. Per questo i volti della madre e del bambino sono così sereni: sono invincibili. In un’epoca di ferro, la vita, se anche muore, non è comunque sconfitta… E accompagnando con lo sguardo la Madonna Sistina, continuiamo a credere che vita e libertà siano una cosa sola, e che non ci sia nulla di più sublime dell’umano nell’uomo. Che vivrà in eterno, e vincerà».

L’umano nell’uomo, per Grossman, è la Madre con il Bambino in braccio. Quando noi maschi riusciamo a guarire dall’oscuro fascino della guerra, maschera ultima del potere con cui cerchiamo un po’ di consistenza per il nostro piccolo io che cerca di esistere un po’ di più? Quando scopriamo che a dare consistenza all’io non è il potere ma l’amore, che amore è privarsi volontariamente del potere senza rinunciare per questo alla forza, una forza che serve a difendere e confortare e non a sottomettere, e questo lo possiamo imparare dalle madri che sanno «dare la vita», «mettere al mondo», «dare alla luce», ma non usano questa possibilità per affermare se stesse attraverso l’altro ma per affermare nell’altro l’unicità che hanno trovato in se stesse, come Grossman scrive in righe di Vita e destino che non dimenticherò mai: «La vita diventa felicità, libertà, valore supremo solo quando l’uomo esiste come un mondo che mai potrà ripetersi nell’infinità del tempo. Solo quando riconosce negli altri ciò che ha già colto dentro di sé l’uomo assapora la gioia della libertà e della bontà».

Dare la vita è il compito a cui siamo chiamati tutti, indipendentemente dal generare biologicamente: questo è ciò che Grossman mi ha insegnato e questo è ciò che lui aveva imparato da sua madre.

Fonte: A. D’Avenia | Corriere.it

 

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