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Ammalarsi di social a 9 anni. Chi cura i bambini inghiottiti dal web

Cresce a dismisura il numero dei piccoli sotto i 14 anni che sviluppano dipendenza da Internet. In Italia solo 36 centri se ne fanno carico

La malattia è il vuoto. Paolo, a 13 anni, prova a riempirlo postando a ripetizione storie su Instagram in cerca di followers. Arriva a farne 20, 30 al giorno. Se ha più di 10 commenti, è già un trionfo: «Guarda – ripete – , guarda in quanti l’hanno vista! ». Sennò si blocca, si arrabbia, non parla, non mangia. Irene, che di anni ne ha 9, è tutta selfie e Tik Tok: può restare attaccata allo smartphone che già possiede anche 7 o 8 ore consecutivamente, mentre mamma e papà lavorano. Sta nella sua stanza, lontano dai pericoli là fuori, non importa quanti ce ne siano dentro. Angelo invece, che di anni ne ha 12, a un certo punto dalla stanza non è uscito più: impossibile staccarsi dal pc, persino per andare in bagno. Che avesse un problema da curare i suoi genitori – al lavoro anche loro davanti al pc 10 ore al giorno, in smart working – l’hanno capito soltanto scoprendo che defecava nella mutande.

Di Internet – che vuol dire: di connessione, chat, social network, videogiochi – sempre più bambini si ammalano. E per chi prova a curarli, come al Dosso verde di Pavia, la prima emergenza è proprio il devastante abbassamento dell’età in cui la dipendenza dalle tecnologie si manifesta. «Il Covid, con l’impiego generalizzato e prolungato della Dad, ha avuto un impatto decisivo da questo punto di vista» spiega la coordinatrice dell’ambulatorio di psicoterapia della struttura, Silvana Paglino. Tablet e pc sono entrati sistematicamente nella quotidianità dei più piccoli «e il risultato è che qui vediamo arrivare sempre più spesso bimbi delle elementari».

I pochi fortunati, che arrivano, visto che in lista d’attesa per un colloquio ci sono qualcosa come un centinaio di famiglie solo in questa piccola fetta di territorio. E visto che il Dosso verde – prioritariamente una struttura di riabilitazione neuropsichiatrica dell’età evolutiva – è tra gli appena 37 centri che nel nostro Paese si fanno carico di questa patologia tra i minori di 14 anni (l’Iss ha da poco messo online una mappa di tutte le strutture che si occupano del problema in Italia). Troppo pochi, per arginare l’ondata di un disagio su cui gli ultimi dati (pubblicati in occasione del Safer internet day) hanno puntato drammaticamente i riflettori: 5 su 10 i bambini tra i 5 e gli 11 anni che possiedono già un dispositivo, 2 su 10 quelli che lo usano più di due ore al giorno, 7 su 10 quelli che ne fanno uso assieme agli amici per giocare. Ma come si prende in carico un bambino con questi problemi? Qual è il suo identikit? «Linee guida o protocolli nazionali non ne esistono, lavoriamo con percorsi personalizzati basati sull’esperienza che abbiamo accumulato nel corso degli anni.

Al primo incontro, che facciamo insieme ai genitori, stabiliamo un inquadramento psicodiagnostico della situazione – continua Paglino –. La dipendenza da Internet non travolge mai i bambini da sola, è associata ad altri disturbi che emergono soprattutto nel loro percorso scolastico: incapacità di concentrarsi e di gestire le emozioni, ritardo nello sviluppo linguistico, insonnia, isolamento e chiusura nei confronti dei coetanei». I piccoli generalmente vengono da famiglie benestanti, in cui i genitori – sulla quarantina – sono a loro volta iperconnessi per ragioni di lavoro: l’uso pervasivo di WhatsApp e delle mail per lavoro li allontana dalle relazioni familiari «ed è a questo vuoto che i bambini tentano di rimediare a loro volta sprofondandosi nella rete e soprattutto nei social network, dove finalmente trovano attenzione, ascolto».

Ecco perché anche i genitori vanno coinvolti nel percorso: con la famiglia viene stilato un progetto, che prevede colloqui a cadenza bisettimanale sia col piccolo che con mamma e papà. Coi bambini al Dosso verde si intraprende un percorso di “normalizzazione”: servono le sedute di psicoterapia, in molti casi la logopedia. Serve una figura di sostegno che affianchi i piccoli a domicilio, il pomeriggio, stimolandone gli interessi: una sorta di mediatore con il mondo esterno, che li rieduchi alla socializzazione. Serve ricominciare daccapo a capire chi si è e cosa si può fare nel proprio tempo: «Dal punto di vista dell’identità, per esempio, dobbiamo ricostruire tutto. Il comune denominatore di questi bimbi è lo stato confusionale in cui li troviamo: non sanno cosa è buono e cosa cattivo, cosa è reale e cosa no, cosa è femminile e cosa è maschile. In particolare quelli che frequentano il mondo dei Manga, L’esperienza del Dosso verde a Pavia: percorsi condivisi con i genitori (spesso a loro volta dipendenti) e con le scuole dove sono numerosi i personaggi “fluidi”: non hanno una percezione chiara della differenza tra generi» racconta il direttore sanitario Antonella Gerardo. Videogiochi e social network non possono essere tolti immediatamente e totalmente, «questo scatenerebbe delle vere e proprie crisi di astinenza – continua Paglino – , senza contare che le tecnologie devono esistere nella vita di questi piccoli ed esisteranno. Il tentativo che facciamo, allora, è educare al loro uso in un tempo condiviso coi genitori: mamma e papà devono tornare presenti, sia nell’uso del web che nelle attività alternative. All’inizio, per intenderci, per molte delle famiglie che incontriamo prendere una palla e andare a giocare sembra una cosa difficilissima». Lo stesso vale per disegnare, nuotare.

Anche guarire è complicato. Da una parte perché questi percorsi sono lunghi e sostenerli comporta anche molte spese: «Noi siamo una struttura convenzionata, le sedute con lo psicoterapeuta sono sostenute dal Servizio sanitario nazionale, ma per esempio l’accompagnamento a domicilio del mediatore no» precisa Gerardo. Dall’altro perché, affinché riescano, serve un lavoro in rete non solo coi genitori, ma anche con la scuola. Dove invece «purtroppo ci scontriamo spesso con lo stesso vuoto relazionale che questi bambini hanno sperimentato a casa – continua Gerardo –: gli insegnanti sono stanchi, demotivati, delegittimati da famiglie impermeabili a qualsiasi appunto sulla condotta dei propri figli. E la burocrazia rende per lo più istituzionali gli incontri che vengono programmati con gli psicoterapeuti ».

Insomma, nelle poche riunioni invece che parlare della situazione dei bambini si finisce per leggere e firmare circolari, come se i problemi dei piccoli fossero l’ennesima incombenza da evadere. La dipendenza intanto peggiora, inghiottendo una generazione già sfiancata da due anni di restrizioni e solitudine. A guardarla dalla collina di Pavia dove si prova a raccoglierne i pezzi – il Dosso verde, appunto – la sensazione è che siamo solo all’inizio.

Fonte: Viviana DalosioAvvenire.it

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