La Russia e la guerra, l’America e la Cina: nei libri dell’ex segretario di Stato Usa lo stesso realismo lucido dello scrittore di origini ucraine
Vasilij Grossman ed Henry Kissinger (98enne ancora vivente) sono figure molto diverse, ma non del tutto. Entrambi israeliti d’origine, hanno combattuto durante la Seconda guerra mondiale contro lo stesso nemico – la Germania hitleriana – anche se su fronti diversi. Il giornalista e scrittore era nato in Ucraina – nella Russia zarista – prima della Rivoluzione d’ottobre. Il futuro segretario di Stato americano era nato in Germania prima dell’avvento del nazismo ed era riparato con la famiglia negli Usa sotto l’incalzare dell’antisemitismo.
Grossman nel 1945 entrò a Berlino come corrispondente del quotidiano dell’Armata Rossa, dopo aver raccontato tutta la “Grande Guerra Patriottica”: dalla resistenza disperata alle porte di Mosca all’inferno di Stalingrado, alle furiose battaglie attorno a Kharkiv (la madre, nel frattempo, venne trucidata dai nazisti in una cittadina a ovest di Kiev). Kissinger stava invece studiando a Brooklyn quando venne arruolato come soldato semplice di fanteria, destinato al fronte europeo. Combatté sulle Ardenne e come operatore d’intelligence di madrelingua tedesca fu infine incaricato di stanare molti ex ufficiali della Gestapo nella Germania occupata.
Dopo la fine della guerra entrambi hanno lasciato molti scritti importanti. Ci ha pensato Gian Luca Barbero a rammentare su queste pagine l’utilità di rileggere Grossman in queste settimane. I taccuini dei mille giorni in prima linea (Uno scrittore in guerra, Adelphi) sono una lezione assoluta di giornalismo e non solo: si può guardare negli occhi la “spietata verità della guerra” avendo maturato a occhi aperti la convinzione di stare dalla parte giusta. Si può narrare il reale in tempo reale – e per questa via impegnarsi a intervenirvi – tenendo a bada le pressioni alla propaganda e le inesorabili distopie di ogni “oggi”.
In Vita e destino (Adelphi, originariamente pubblicato in italiano da Jaca Book, ancor prima della fine dell’Urss), Grossman rivive e riscrive in chiave narrativa i suoi anni di “guerra e pace” (e il suo romanzo è ormai unanimemente giudicato all’altezza del capolavoro tolstojano). Negli anni 50 la Russia staliniana e krusheviana non è più la “parte giusta” per un intellettuale affascinato dagli ideali di libertà e riscatto dell’uomo. Quella Russia si rivela invece infine dispotica – e antisemita – come quella zarista, come sempre quella fondata da Pietro il Grande. Scriverlo s’impone a Grossman come imperativo categorico: anche se è doloroso, anche se il Kgb gli sequestra perfino i nastri della macchina per scrivere. Eppure il libro non manca di asseverare con penna grandiosa il “mito dei miti” dell’orgoglio nazional-militare russo contemporaneo: la resistenza della “casa di Pavlov” a Stalingrado (è consigliabile rileggere anche quei brani, per chi è – giustamente – ammirato dalla tenace difesa patriottica dei soldati ucraini; ma anche per chi s’interroga sull’eterno ritorno del militarismo popolare russo).
Kissinger non ha scritto reportage di guerra, né romanzi, ma quasi esclusivamente saggi di storia geopolitica. La sua produzione si apre con la sua tesi di dottorato ad Harvard (pubblicata nel 1957 come A World Restored; in italiano La diplomazia della restaurazione) e si chiude a 360 gradi nel 2014 con il testamento autobiografico World Order (Ordine Mondiale).
La stabilità mondiale studiata dal giovane Kissinger è quella dell’Europa spazzata dall’era napoleonica e ricostruita a Vienna nel 1815. La realpolitik internazionale dell’assolutista asburgico Metternich propone, agli occhi dell’ambizioso consigliere della Casa Bianca di Kennedy e poi di Nixon, un modello sempre attuale: forse senza alternative certamente di successo nel dare all’Europa “mondiale” dell’epoca un trentennio di stabilità e pace. È in fondo in fondo non troppo diverso da quello implicito nelle nascenti liberaldemocrazie: entrambi sono fondati su sistemi di “checks and balances”, di pesi e contrappesi, sulla costante ricerca di equilibri, interni ed esterni agli Stati o sovra-Stati moderni. È la matrice (storica e intellettuale) dell’ “ordine mondiale”: una categoria sulla quale neppure dopo sei decenni – anche di guerre, come quella chiusa in Vietnam, che gli meritò un discusso Nobel per la pace – il vecchio uomo di Stato si mostra esitante.
Nessun sistema “unipolare”, privo di equilibri, si rivela alla fine stabile. E questo – nella filigrana analitica di Kissinger – sembra valere per ogni dimensione del continuo farsi della storia: geografica, economica (oggi soprattutto finanziaria), politico-militare, tecnologica (oggi: digitale), socio-cultural-religiosa. Le pretese egemoniche – e le paure corrispettive – sono sempre in agguato nei mondi ridotti “a una dimensione” (anzitutto ideologica). La pace e lo sviluppo maturano invece spesso ai lati di muri, anche se nel perseguimento continuo della loro trasformazione in confini pacifici fra civiltà diverse fra loro: capaci però di rispettare le proprie diversità, disposte a condividerle per un futuro diverso, con i ritmi suggeriti dalla storia stessa. Gli squilibri di ogni genere fra popoli e Paesi sono storicamente inesorabili e la competizione geopolitica è una condizione ineliminabile; ma l’obiettivo della stabilità impone di non ignorare mai “gap” insostenibili e di correggerli sempre quanto più possibile.
Le guerre spesso sono inevitabili, ma si possono sempre prevenire, è necessario tentare sempre di prevenirle e di farle cessare quanto prime. Le relazioni internazionali – e le strutture sovranazionali via via edificate – sono uno strumento strategico: un’ “arma” da mantenere efficiente e usare sempre (in Ordine mondiale Kissinger ha toni quasi commossi quando rievoca gli sforzi innovativi dei suoi antichi colleghi al tavolo del Trattato di Westfalia del 1648, per far ripartire l’Europa dopo trent’anni di guerre autodistruttive)
Come Grossman, anche Kissinger non è un filosofo politico. Una sorta di “testamento aggiunto” – datato 2011 – ha un titolo secco e concreto: On China (“Cina”). Quella narrata un’ultima volta da Kissinger – cui tuttora Pechino riserva corsia veloce e telefono rosso – è la Cina millenaria: quella che – secondo gli storici – si sarebbe ritrovata già in passato a misurarsi testa a testa con un’Europa più o meno ignara (certamente sul piano scientifico-tecnologico, meno su quello politico-istituzionale, rimasto in Cina ancorato a un autoritarismo burocratico). Quella Cina che non ha mai conosciuto regimi di libertà, ma spesso “disordini sotto il cielo”, guerre intestine fra principi. È tuttavia la stessa Cina che – esattamente cinquant’anni fa, allo zenit del maoismo comunista – ha accolto il presidente americano Nixon, volato “verso l’ignoto” spinto dal suo rampante “national security adviser”, che aveva preparato in segreto un colpo d’ala che ha modellato il pianeta contemporaneo forse più della successiva caduta del Muro.
Neppure di quel passo Kissinger si mostra pentito. Fin da allora – e fin dal 1972 in una visione ininterrottamente condivisa da tutti inquilini della Casa Bianca – il superamento della Guerra fredda fra Usa e Urss s’indirizzava in modo leggibile verso la sostituzione della superpotenza militare sovietica – già scricchiolante – con una nascente superpotenza economica cinese. Kissinger è lucido nel raccontare come il rapporto maturato con il primo ministro Chu En Lai gli avesse confermato la sopravvivenza di una “civiltà cinese” più complessa e profonda di quella russa e superiore a un maoismo solo apparentemente egemone. Il “Grande Balzo in Avanti” poi operato da Deng Xiaoping – una sorta di re-filosofo privo di poteri formali – non era affatto uno scenario azzardato e a Kissinger sembrava anzi auspicabile perché quasi obbligato. Appariva il prodromo ineludibile a qualsiasi “ordine avanzato” nel ventunesimo secolo, in cui l’Europa (Russia compresa) non sarebbe stata più centrale; e il Giappone non sarebbe stato più caposaldo americano nel Pacifico.
La vera “ragione” – è possibile leggere in Kissinger non meno che in Grossman – non è né ottimista, né pessimista. Considera invece suo dovere – ma anzitutto sua risorsa prima – il reggere la visione di una realtà che può talvolta risultare estremamente aspra e dura, apparentemente priva di ogni via d’uscita. Ma non lo è mai, senza speranza, la storia. Almeno non lo è mai stata fino al 2022.
Fonte: Antonio QUAGLIO| IlSussidiario.net