altro giorno una collega mi ha detto che non può perdere tempo ad ascoltare i ragazzi perché deve completare il programma. Io forse non finirò il programma, ma credo che i miei cento studenti un giorno ricorderanno quella strana insegnante che anche alla quinta ora fa l’appello. Non so se sono una brava insegnante ma mi dedico tanto ai ragazzi che mi vengono affidati ogni giorno. Peccato che poi qualcuno abbia deciso di valutarmi in base alle crocette da apporre su un test di un fantomatico concorso. Che umiliazione! Fare l’insegnante è un’altra cosa e non saranno le crocette a fermarmi». Questo è uno dei tanti messaggi che ho ricevuto da docenti precari in occasione del concorso che stanno affrontando per ottenere un posto stabile, quando già insegnano da anni ma solo per coprire i buchi di un sistema che del precariato ha fatto la regola: dal 1999 solo tre concorsi ordinari (per legge dovrebbero essere triennali), delle 850 mila cattedre della nostra scuola italiana sono scoperte circa 250 mila (precari e supplenti costano meno). E così basta un quiz di cui riporto solo un esempio così che possiate farvi una tragica idea: «Tra le maggiori esportazioni armene si trova: Ceramica, Generi alimentari, Prodotti farmaceutici, Rame». Basta rispondere a simili domande per saper insegnare? Quanti di noi già in ruolo supererebbero il test?
Un’altra collega precaria nella scuola primaria mi ha spiegato che nel loro concorso coloro che risulteranno idonei (70/100 al quiz) non entreranno in una graduatoria di attesa del posto cioè, una volta assegnate le cattedre da coprire nell’immediato, il loro risultato decade e per avere il posto dovranno aspettare un nuovo concorso. Un sistema basato sullo sfruttamento del precariato e sulla convinzione che per insegnare basti un quiz, ha come ultima preoccupazione la continuità educativa dei ragazzi che spesso iniziano l’anno scolastico senza docente o lo cambiano ogni settembre o addirittura più volte in un anno. Per il nostro Ministero dell’Ostruzione il docente è un jukebox di programmi e la relazione educativa, ambiente che rende possibile la didattica, è insignificante: ciò che conta è riempire i ragazzi di informazioni e verificarle, e non che imparino a conoscere se stessi e il mondo attraverso la conoscenza, per poi prendersi cura di sé e del mondo, come mostra un film appena uscito al cinema (candidato come miglior film straniero in quella cerimonia in cui ormai di rado contano i film). S’intitola Lunana: il villaggio alla fine del mondo e narra la storia di Ugyen, giovane insegnante, che vorrebbe andare alla ricerca della sua felicità in Australia come cantante, ma deve prima compiere l’ultimo anno, il quinto, di tirocinio nel sistema scolastico del Buthan (un Paese di 800 mila abitanti grande quanto l’Olanda tra Cina e India) dal momento che quello è il percorso universitario da lui scelto, ma di cui si è pentito. Viene assegnato al villaggio di Lunana («Valle oscura») situato lungo i ghiacciai dell’Himalaya a 4.800 metri, che raggiunge dopo 8 giorni di cammino per insegnare nella scuola più remota del mondo. Ancora a due ore dalla meta gli abitanti del villaggio (una settantina, molti dei quali reali protagonisti del film) lo accolgono con una cerimonia di benvenuto: il nuovo maestro è un salvatore per una comunità come quella (viene in mente per contrasto il ruolo dei docenti nella nostra società). Ma quando vede le condizioni in cui dovrà lavorare, Ugyen decide di andare via: non c’è neanche la lavagna. Però una bambina di 9 anni, Pem Zam (la vera Pem Zam di Lunana), capoclasse, lo sveglia al mattino presto per dirgli che lo aspettano per la lezione. E così comincia una storia che racconta la scuola al suo grado «elementare», niente sovrastrutture, solo le persone e la parola: la scuola per quello che è, una relazione in cui studenti e maestro crescono insieme al fine di una vita migliore. Persino in Buthan il sistema universitario prevede un percorso di 5 anni di tirocinio pratico di pari passo con lo studio, l’unico modo di reclutare docenti che ne hanno davvero la capacità e la vocazione: possono fare questo mestiere coloro che si mettono alla prova nel costruire un ambiente relazionale fecondo, all’interno del quale ciò che si insegna viene scelto perché serve alle persone che hai di fronte, e non in astratto con programmi di cui i quiz a crocette sono il tragico distillato. Educare vuol dire fornire a ciascuno il modo di raggiungere la forma migliore per la sua vita, aver cura di un giovane è far sì che lui stesso impari a prendersi cura di sé, e questo si realizza non trasmettendo un sapere già dato e cristallizzato, ma nel rendere l’altro autonomo nella ricerca di tale sapere nei percorsi ritenuti più significativi (i programmi sono una cornice non il quadro), perché risponda alla sua unicità con ciò che gli serve per realizzarla. Ma se saper insegnare è rispondere al 70 per cento di un quiz vuol dire che ci si aspetta che un maestro faccia altrettanto con l’allievo. Non dico che non ci vogliano i programmi, ma che i programmi sono per l’uomo e non l’uomo per i programmi (non sarebbe ora di introdurre percorsi con delle opzioni?), anche perché, lo ripeto, non si dà didattica senza relazione. Nessuna tecnica didattica diventa vita se non è frutto di una scelta indirizzata a dare la miglior forma possibile all’esserci dell’altro. Educare è rendere l’altro maestro di se stesso, perché lo si è portato a far maturare un maestro interiore: colui che sa come e dove procurarsi ciò che serve alla sua vocazione per crescere. «L’uomo colto non è colui che sa quando è nato Napoleone, ma colui che sa dove andare a cercare l’informazione nell’unico momento della sua vita in cui gli serve, e in due minuti» diceva Umberto Eco e questo vale per l’informazione come per la vita. E non c’è passione capace di muovere una persona alla conoscenza più della scoperta di poter dare forma, in prima persona, alla propria esistenza «in formazione». Ricordo ancora la lettera di un’alunna a cui avevo prestato il Diario di Etty Hillesum (ragazza ebrea morta in campo di concentramento) perché stava attraversando una crisi profonda. Dopo averlo letto mi scrisse: «Volevo ringraziarla per avermi prestato un libro tanto prezioso: se prima mi limitavo a vedere il bianco e il nero nella vita, ora le sfumature fanno parte di me. Certo mi è impossibile non vedere cose che mi rattristano, ma non oso più incolpare la vita di questo, non la considero più ingiusta o cattiva. Semplicemente vivo le situazioni spiacevoli e affido a Dio il mio dolore. Etty è così simile a me che leggendo le sue parole mi sono sentita finalmente Bene (con la B maiuscola), era come se quelle parole fossero lo specchio dei miei pensieri. Ho segnato su un quaderno ogni frase che mi è sembrata vicina a me ed è stato liberatorio, come ammettere che quel dolore c’è e che anche qualcun altro lo ha vissuto. Etty e io siamo così vicine che avrei tanto voluto parlarle, dirle proprio quelle cose che io vorrei sentirmi dire. Mi ha insegnato molto, con la sua giovane irrequietezza, forza, fede, ma soprattutto con il suo amore inarrestabile per la vita». Etty non era in programma, è diventato programma a partire dalla situazione concreta: così il sapere è vivo e da pro-gramma (forma data alla vita) diventa pro-getto (forma che la vita si dà). Non si tratta di costringere in una forma ma di aiutare a raggiungerla.
Quando Ugyen, il giovane maestro di Lunana, chiede ai bambini perché vadano a scuola uno di loro risponde che vuole diventare maestro anche lui, perché il maestro «tocca il futuro». È proprio vero, quando entri in classe tocchi il futuro nella carne dei tuoi studenti, nella loro irripetibile ricerca di compimento. Toccare il futuro significa poi essere toccati dal futuro, esserne continuamente riempiti e spiazzati, ma se invece del futuro tocchiamo solo programmi, carte e quiz senz’anima, il futuro lo disperdiamo, in loro e in noi. Non capisco come sia possibile accettare ancora questo modo di scegliere gli insegnanti senza ribellarsi, dove sia la dignità di un Paese che invece di impegnare risorse per rifare scuole e ospedali preferisce usarle per le facciate delle case dei privati o per aumentare la produzione bellica. In queste scelte emerge una identità oscura che preferisce il quiz alla cultura, la potenza a cura, la morte alla vita. Un Paese in dissolvenza.
Fonte: A. D’Avenia | Corriere.it