Nell’intervista al «Corriere della Sera» il Papa ha fatto riferimento al discorso rivolto il 6 dicembre 2001 alla città di Milano dall’allora cardinale arcivescovo Carlo Maria Martini. Ne pubblichiamo di seguito il testo integrale.
I temi indicati nel titolo di questo discorso hanno accompagnato da sempre l’umanità, da quando Caino alzò la mano proditoriamente su Abele e lo uccise (Gen 4, 8) e da quando Dio dichiarò: «Però chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte» (Gen 4, 15), fino alla parola di Gesù: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace» (Gv 14, 27).
Ma in questi mesi, a partire dall’11 settembre, tali temi sono ritornati di bruciante attualità.
I fatti sono noti: gravissimi attentati terroristici che rivelano una capacità inaudita di odio e fanatismo, che si serve di tecnologie raffinate e si nutre di forme finora inedite di fondamentalismo civile e religioso (pensiamo a tutti gli aspiranti suicidi). Agli attentati è seguita un’azione di caccia ai terroristi che è sfociata in una guerra in Afghanistan. In questi ultimi giorni poi si sono ancora moltiplicati vergognosi attentati suicidi contro cittadini inermi in Israele, a cui hanno fatto seguito ritorsioni e azioni militari in Palestina, in luoghi dove ormai da anni c’è un crescendo di violenza di cui non si vede la fine.
Uno sguardo al Vangelo (Lc 13, 1-5)
Questi fatti ci addolorano, ci interpellano, ci sconvolgono. Pensiamo con dolore agli innumerevoli morti, ai feriti che porteranno per tutta la vita il segno della tragedia, alle famiglie distrutte, ai milioni di profughi, al pianto dei bambini mutilati. Nascono molte domande, ipotesi, inquietudini. Domande di carattere umano e religioso e anche di carattere politico. Si vorrebbe capire, giudicare, vedere come agire per farla finita con il terrorismo, la paura, la guerra, come operare seriamente per una pace duratura.
Certamente la situazione è ancora troppo complessa e fluida per descriverla in maniera adeguata. Ogni giorno poi aggiunge la sua sorpresa, per lo più dolorosa. Avevo iniziato queste riflessioni partendo anzitutto dall’attentato alle torri gemelle, ma poi gli eventi in Afghanistan e in questi ultimi giorni la ricrudescenza degli eccidi in Medio Oriente hanno via via allargato il mio campo di discernimento. Del resto è innegabile che nella preparazione della tragedia dell’11 settembre abbia avuto un ruolo non secondario il risentimento accumulato nell’annoso conflitto israeliano-palestinese. Per questo mi sono chiesto con insistenza e ho chiesto al Signore: in questo turbine della nostra storia, ha ancora senso parlare di pace? E in che modo, e a quale prezzo?
Parlando, leggendo e ascoltando molto in queste settimane mi sono accorto di come anche i pareri siano tanto divergenti. Sono molteplici i punti di vista, gli angoli di visuale; fortissime sono le passioni, i coinvolgimenti emotivi; resistenti a sgretolarsi le precomprensioni, soprattutto quelle inconsce. Sembrerebbe più saggio attendere, pregare, e per intanto sanare e medicare in quanto si può le ferite, come in emergenza. Ma sant’Ambrogio non si è sottratto alla riflessione e al tentativo di giudizio su fatti assai gravi, pubblici e controversi del suo tempo. Così il suo umile successore chiede, per l’intercessione del nostro Patrono e con l’aiuto delle preghiere e dei suggerimenti di tanti, la grazia di poter parlare a voce alta di queste cose di fronte a Dio, al vangelo e alla coscienza dell’umanità.
Sono molte le pagine bibliche che sono state evocate in questi mesi per cercare luce nella parola di Dio. Io vorrei partire dal passo evangelico di Luca (13, 1-5) che è stato letto durante questa preghiera vespertina. Si tratta di due affermazioni o reazioni di Gesù, posto di fronte a gravi fatti di sangue di origine politica e a dolorose calamità naturali.
Dice il testo: «In quello stesso tempo si presentarono a Gesù alcuni a riferirgli circa quei Galilei il cui sangue Pilato aveva mescolato con quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola Gesù rispose: Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quei diciotto sopra i quali rovinò la torre di Siloe e li uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo».
Noto un particolare curioso. Sant’Ambrogio, che pure commenta con accuratezza e talora anche con pedanteria l’intero terzo vangelo, su questo punto è reticente. Sorvolando su qualunque sentimento antiromano che poteva risultare dal crimine di Pilato, si limita a un’affermazione marginale, ipotizzando, per il massacro di Gerusalemme, una colpa rituale dei Galilei uccisi, per farne un caso esemplare di punizione «per coloro che su istigazione diabolica non offrono il sacrificio con animo puro» (Esp. del Vang. Sec. Luca, vii , 159). Evita quindi di lasciarsi coinvolgere dalle ardue domande politiche e teologiche che emergono da tali fatti e lascia senza commento lo sconcertante e inedito comportamento di Gesù. Ma noi non riusciamo a fare altrettanto.
Gesù si trova infatti qui di fronte a un groviglio di problemi etici, teologici e politici. Gli interrogativi che emergono sono analoghi ma superiori per gravità a quello sul quale sarà poi interrogato a proposito del tributo da pagare a Cesare (Lc 20, 20-26): interrogazione quest’ultima — nota l’evangelista Luca — propostagli «da informatori che si fingevano persone oneste, per coglierlo in fallo colle sue parole e poi consegnarlo all’autorità e al potere del governatore» (Lc 20, 20).
Qui si tratta ugualmente di domande a trappola, ma a proposito di fatti ben più sconvolgenti. V’è in questione ciò che noi chiameremmo una “strage di Stato”, voluta dal rappresentante dell’Imperatore e per di più perpetrata nel luogo sacro del tempio: quindi un massacro avvenuto probabilmente durante le festività pasquali, nel quale dovevano essere state trucidate molte persone, forse terroristi disposti al sacrificio supremo. Non sappiamo quanti fossero, ma è sufficiente ricordare che alcuni anni prima il predecessore di Pilato aveva ucciso in una sola occasione tremila ebrei.
Gesù viene dunque provocato ad esprimersi e a dare un giudizio: condannerà l’assassinio politico, voluto per umiliare ulteriormente gli Ebrei e profanare il tempio? Griderà contro la crudeltà e il cinismo del regime dominante? Oppure, come altri in Israele, che ritenevano la dominazione straniera comunque un minor male di fronte a un possibile caos, dirà che si è trattato di una dolorosa operazione di legittima difesa, di una repressione inevitabile per evitare nuove stragi da parte di un terrorismo suicida e senza sbocchi? Non aveva forse un tempo lo stesso profeta Geremia sconsigliato atti di inutile resistenza al conquistatore babilonese? Immagino che Gesù si sarà sentito addosso la domanda che un giorno gli rivolgeranno i Giudei nel tempio: «Fino a quando terrai l’animo nostro sospeso? Se tu sei davvero il Cristo, dillo a noi apertamente». Cioè, in questo caso, facci sapere, tu che sai tutto, da che parte sta la verità e da che parte sta l’ingiustizia…
Anche la seconda situazione narrata da Luca 13, 1-5 richiama domande attuali. Essa riguarda una calamità naturale, la caduta di una torre a Gerusalemme che travolge diciotto persone (e qui pensiamo agli incidenti e drammi di questi ultimi tempi: i disastri dei trafori del Monte Bianco e del Gottardo, il tragico incidente di Linate, gli incidenti aerei di queste ultime settimane, le stragi per le fughe di gas…). Anche allora come ora questi incidenti suscitavano tante domande: si tratta di calamità inevitabili o sono frutto di negligenza, di errore umano o di incoscienza o di imprudenze inescusabili? Chi è colpevole? Chi doveva vigilare? Quale autorità ha omesso i dovuti controlli, ha sottovalutato gli appelli, ecc.?
I due episodi sono proposti a Gesù perché prenda posizione. Molti aspettano, come ho già sopra indicato, che Gesù si dichiari contro il tiranno Pilato; altri vorrebbero che criticasse i Galilei come terroristi insipienti. A proposito della caduta della torre ci si attende che denunci con parole di fuoco l’incuria dei governanti o al contrario rimproveri l’imprudenza colpevole della gente.
Ma qui si verifica l’imprevisto. Gesù non prende posizione né pro né contro nessuna delle persone coinvolte, non si esprime su chi degli immediati protagonisti sia da ritenersi colpevole. Proclama, è vero, un suo giudizio, che dovremo approfondire. Ma la sua voce sta al di sopra di tutti i temi sia pur gravi di politica corrente. Ciò ci può sorprendere, deludere e turbare. Vedremo che cosa ciò voglia dire per l’oggi. Ma notiamo fin da ora che si verifica anche qui ciò che notava un recente storico delle origini cristiane: «In confronto ai profeti classici di Israele, il Gesù storico è notevolmente silenzioso a proposito di molte scottanti questioni sociali e politiche del suo tempo… Il Gesù storico sovverte non solo alcune ideologie, ma tutte le ideologie» (J.P.Meier, Un ebreo marginale: Ripensare il Gesù storico, Brescia 2001, p. 189).
Le domande di oggi
Qualcosa di simile avviene oggi. Le domande sui fatti della storia e soprattutto sui drammatici fatti dei nostri giorni sono tante e comprensibilmente cariche di sofferte emozioni, di precomprensioni affettive e anche di pregiudizi. E non di rado si invocano da qualche autorità morale risposte immediate e chiarificatrici (per lo più nell’attesa di essere confermati in ciò che ciascuno ha già giudicato dentro di sé!).
Molte sono in particolare le interrogazioni gravi che si pone oggi l’uomo della strada di fronte alle notizie e alle immagini televisive di questi mesi e di questi giorni.
La prima riguarda gli autori dei gesti di terrorismo, a partire dai più clamorosi e micidiali, in particolare quelli connessi col suicidio dell’attentatore, ed è la domanda sul perché. Perché un essere umano può giungere a tanta crudeltà e cecità? Ci si chiede in quali oscuri meandri della coscienza possano albergare tali sentimenti di odio, di fanatismo politico e religioso, quali risentimenti personali e sensi di umiliazione collettiva possano essere alla radice di simili folli decisioni. Nulla e nessuno potrà mai giustificare questi atti o dare loro una qualunque parvenza anche larvata di legittimazione. Ma ci dobbiamo anche chiedere: ci siamo noi tutti davvero resi conto nel passato, rispetto ad altre persone e popoli, quanto grandi ed esplosivi potessero a poco a poco divenire questi risentimenti e quanto nei nostri comportamenti potesse contribuire e contribuisse di fatto ad attizzare nel silenzio vampate di ribellione e di odio?
Ma non posso, a proposito di questa prima domanda, non sottolineare anche la tremenda responsabilità di chi, magari dotato di grandi mezzi di fortuna, ha imparato a sfruttare questi risentimenti e li fornisce di strumenti di morte, finanziando, armando e organizzando i terroristi in ogni parte del mondo, forse anche vicino a noi. Anche per costoro non v’è nessuna ragione o benché minima legittimazione per il loro agire. Valgono piuttosto le parole di Gesù per chi sfrutta in tal modo la debolezza di persone semplici: «Sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da un asino, e fosse gettato negli abissi del mare!» (Mt 18, 1). E non posso neppure dimenticare qui quanto ancora Gesù diceva nel discorso della Montagna proibendo anche una parola offensiva perché contenente già i germi dell’odio e dell’omicidio (Mt 5, 22… «Chi dice al fratello “pazzo”!, sarà sottoposto al fuoco della Geenna»). Chi di noi ha l’età per ricordare i primi tempi della contestazione (fine anni ’60 – inizio anni ’70) sa che la noncuranza e la leggerezza, ostentata anche da chi avrebbe avuto la responsabilità di giudicare e di punire, rispetto ad atti minori di vandalismo e disprezzo del bene pubblico, ha aperto la via a gesti ben più gravi e mortiferi. Chi getta oggi il sasso e si sente impunito domani potrà buttare la bomba o impugnare la pistola. La “tolleranza zero” è, per ogni parola o gesto di odio, supportata anche da una regola evangelica.
Ma oltre alla domanda di un giudizio umano e morale severo su ogni anche piccola radice di disprezzo e di odio — da qualunque parte provenga e contro chiunque si eserciti, per smascherarla e in quanto possibile per esorcizzarla e disarmarla — emerge con insistenza in queste settimane nel cuore della gente anche una seconda domanda, questa di natura piuttosto politica e militare: il tipo di operazioni che si vanno facendo contro il terrorismo sarà efficace? Servirà davvero a scoraggiare i terroristi, a chiudere gli episodi macabri degli uomini-bomba, a creare le condizioni per un superamento delle cause di tante inquietudini? Ben pochi di noi hanno risposte certe e articolate a tutte queste questioni, anche per la loro complessità e per gli scenari ed episodi diversi e mutevoli a cui esse si riferiscono. Ma ciò non toglie che esse gravino pesantemente sulle coscienze di tutti, in particolare di coloro che sono più direttamente responsabili di programmare le operazioni contro il terrorismo, di determinare le misure politiche, economiche, giudiziarie, culturali che si ritengono necessarie. Essi soli conoscono da vicino le circostanze e l’efficacia, positiva e negativa, dei bombardamenti e di altre azioni di guerra, dato anche che i mass media non sembrano aver un accesso se non limitato alle fonti dirette dei dati e delle strategie militari. Anche a questa domanda non osiamo dare qui una risposta. Essa è però connessa strettamente con la seguente.
La terza domanda è di tipo etico: ciò che si è fatto e si sta facendo contro il terrorismo specialmente a livello bellico rimane nei limiti della legittima difesa, o presenta la figura, almeno in alcuni casi, della ritorsione, dell’eccesso di violenza, della vendetta? È chiaro che il diritto di legittima difesa non si può negare a nessuno, neppure in nome di un principio evangelico. Ma occorre una continua vigilanza e un costante dominio su di sé e delle proprie passioni individuali e collettive per far sì che nella necessaria azione di prevenzione e di giustizia non si insinui la voluttà della rivalsa e la dismisura della vendetta. Si era avuta l’impressione che questi principi di cautela fossero presenti nei primi giorni della reazione ai terribili attentati dell’11 settembre. Ma ora a che punto siamo? Non ha forse l’ansia di vittoria e il dinamismo della violenza preso la mano diminuendo la soglia di vigilanza sulle azioni di guerra che potrebbero essere non strettamente necessarie rispetto agli obiettivi originari e soprattutto colpire popolazioni inermi? È qui che il principio della legittima difesa viene messo gravemente in questione: esso non può essere impunemente scavalcato senza creare più odi e conflitti di quanto non pretenda risolverne. Sembra questo in particolare il caso, è doloroso dirlo, di quanto continua a succedere in maniera crescente in Medio Oriente. Da una parte un terrorismo folle e suicida contro cittadini pacifici e anche tanti bambini, un terrorismo che non conduce da nessuna parte e che suscita un crescendo di ira, indignazione e orrore. Dall’altra atti di rappresaglia, che è difficile definire ancora come operazioni di legittima difesa, che colpiscono popolazioni inermi, e anche qui tanti bambini. Vi si aggiungono in più vere e proprie azioni belliche, di fronte alle quali anche l’osservatore più imparziale e sinceramente desideroso e convinto del bisogno di una piena sicurezza per il paese che così agisce, non riesce più a cogliere quale sia quella strategia della pace e della sicurezza che pure è sempre nel desiderio di tutto quel popolo la cui sopravvivenza è essenziale per il futuro della pace nella regione e nel mondo intero.
Queste domande sono nel cuore di tanta gente e su di esse vi sarebbe ancora tanto da discutere. Ma esse, pur facendo riferimento a elementi etici di estrema gravità, non sono di competenza solo e spesso neanche in prima istanza della Chiesa. Non spetta alla Chiesa dare l’ultimo giudizio pratico su atti di cui solo pochi conoscono le modalità ultime e precise. Sollevando interrogativi come quelli espressi sopra non ho voluto tanto esprimer giudizi definitivi quanto aiutare me e voi a riflettere seriamente e soprattutto stimolare i competenti e i responsabili a pesare ogni loro opinione e azione su una bilancia di rigorosa giustizia e di rispetto dei diritti umani di ognuno. Tali responsabili veramente competenti non sono probabilmente molti. Certamente assai meno di quanto non si pensi o non appaia dal numero e dalla molteplicità delle opinioni che vengono espresse, spesso con tanta sicurezza. Sono pochi infatti a conoscere a fondo tutti i dati disponibili sui terroristi, i loro progetti, le loro risorse. Poche sono le notizie che realmente filtrano sugli atti di guerra e le loro conseguenze, la natura delle resistenze e gli ambiti delle strategie. Le autorità politiche e militari responsabili — me ne rendo conto — pagano qui una misura ardua di solitudine a fronte di decisioni che coinvolgono la vita di milioni di persone.
Per questo è tanto più prezioso il controllo democratico stabile e metodico esercitato dai Parlamenti e da una opinione pubblica intelligente e non faziosa, correttamente informata prima sul varo e poi sulla conduzione degli eventuali interventi.
L’atteggiamento di Gesù
A causa di tutto ciò ci impressiona e ci scuote ancora di più l’atteggiamento di Gesù nel brano di Luca da cui siamo partiti e al quale ora vorrei ritornare. C’è infatti un’ulteriore domanda oltre alle quattro che abbiamo sin qui richiamato a proposito dei fatti attuali di terrorismo e di guerra. È una domanda molto semplice, di natura evangelica. Suona così: che cosa ci direbbe oggi Gesù su quanto abbiamo evocato fin qui? Che cosa ci suggerirebbe nello spirito del Discorso della Montagna, nel quadro delle beatitudini dei misericordiosi e degli operatori di pace?
Abbiamo visto sopra nella pagina di Luca 13, 1-5 che Gesù non entra in nessuno dei problemi che hanno in mente i suoi interlocutori e che riguardavano l’attribuzione delle colpevolezze per gravi fatti di sangue, la ricerca di capri espiatori. Superando ogni giudizio morale categoriale sulle azioni di singoli o di gruppi, Gesù rimanda alla radice profonda di tutti questi mali, cioè alla peccaminosità di tutti, alla connivenza interiore di ciascuno con la violenza e il male, ripetendo per ben due volte: «se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo». Egli invita a cercare in ciascuno di noi i segni della nostra complicità con l’ingiustizia. Ci ammonisce a non limitarsi a sradicarla qui o là, ma a cambiare scala di valori, a cambiare vita.
Ciò in un primo momento ci sorprende. Ci sembra una fuga dal presente, un volare troppo alto di fronte a eventi che richiedono con urgenza decisioni e giudizi. Ci sembra un generalizzare un problema che rischia di confondere torti e ragioni, carnefici e vittime, tutti accomunati sotto un unico denominatore.
Ma Gesù non intende per nulla togliere a ciascuno la sua concreta responsabilità. Ognuno è responsabile delle sue azioni e ne porta le conseguenze. Per questo Gesù disse a Pietro che tentava di difenderlo con la forza quando vennero per arrestarlo: «Rimetti la spada nel fodero, perché tutti quelli che metteranno mano alla spada periranno di spada» (Mt 26, 52). Gesù sa che ciascuno deve prendere le sue decisioni morali di fronte alle singole situazioni. Ma gli importa molto di più segnalare che tutti gli sforzi umani di distruggere il male con la forza delle armi non avranno mai un effetto duraturo se non si prenderà seriamente coscienza di come le cause profonde del male stanno dentro, nel cuore e nella vita di ogni persona, etnia, gruppo, nazione, istituzione che è connivente con l’ingiustizia. Se non si mette mano a questi ambiti più profondi mutando la nostra scala di valori tra breve ci ritroveremo di fronte a quei mali che abbiamo cercato con ogni sforzo esteriore di eliminare.
È così che i Vescovi provenienti da tutto il mondo e riuniti in Sinodo nel mese di ottobre 2001 hanno valutato la situazione odierna. Hanno detto nel loro messaggio finale: «La nostra assemblea, in comunione con il santo Padre, ha espresso la più viva sofferenza per le vittime degli attentati del 11 settembre e per le loro famiglie. Preghiamo per loro e per tutte le vittime del terrorismo nel mondo. Condanniamo in maniera assoluto il terrorismo, che nulla può giustificare. D’altronde non abbiamo potuto non ascoltare, nel corso del Sinodo, l’eco di tanti altri drammi collettivi… Secondo osservatori competenti dell’economia mondiale, l’80% della popolazione del pianeta vive con il 20% delle sue risorse e un miliardo e duecento milioni di persone sono costretti a vivere con meno di un dollaro al giorno. Si impone un cambiamento di ordine morale». (nn. 9-10). Più sotto (n. 11) i vescovi elencano alcuni «mali endemici, troppo a lungo sottovalutati, che possono portare alla disperazione intere popolazioni. Come tacere di fronte al dramma persistente della fame e della povertà estrema, in un’epoca in cui l’umanità ha a disposizione come non mai gli strumenti per un equa condivisione? Non possiamo non esprimere la nostra solidarietà con la massa dei rifugiati e degli immigrati che, a causa di guerra, in conseguenza di oppressione politica o di discriminazione economica, sono costretti ad abbandonare la propria terra…».
Sono tanti i mali da deplorare e da sconfiggere: oltre il terrorismo e la violenza va condannata ogni ingiustizia e va eliminato ogni affronto alla dignità umana Ci chiediamo: sarà possibile una tale inversione di tendenza? Osiamo affermare di sì anzitutto perché un simile raddrizzamento della scala dei valori è necessario per il superamento di quella conflittualità crescente che mira alla distruzione reciproca dei contendenti. In secondo luogo perché contiamo sulla grazia di Dio e sulla ragionevolezza di fondo dell’uomo. In terzo luogo perché come cristiani (e anche in questo ci distinguiamo da un mondo occidentale fino a poco fa sicuro di sé ma ora molto più incerto e sempre più povero di speranza trascendente) abbiamo la certezza che se il male abbonda è perché sovrabbondi la grazia della conversione e del perdono. Anche se lasciamo al Signore della storia il calcolo dei tempi, sappiamo che è ben possibile che maturi di nuovo in Occidente, forse proprio sotto la spinta di eventi così drammatici, la percezione che è necessario un cambio di vita, l’adozione di una nuova scala di valori. In un articolo recente si parlava, a proposito di tale riconoscimento, di “Apocalisse”, nel senso etimologico di un “alzare il velo” di “una rivelazione” (Enzo Bianchi, Le apocalissi dell’11 settembre, «la Repubblica» 27.10.01). In questo contesto si tratta di una rivelazione del male in cui siamo immersi, dell’assurdità di una società il cui dio è il denaro, la cui legge è il successo e il cui tempo è scandito dagli orari di apertura delle borse mondiali. Una società che giunge quasi al ridicolo nella sua ricerca affannosa di investimenti virtuali, di transazioni puramente mediatiche e che pretende di esportare messianicamente questo modo di vedere in tutto il mondo. È questa la globalizzazione che è giusto rifiutare. Come ha scritto recentemente Tommaso Padoa Schioppa, «la strada che porta alla sicurezza è assai più lunga di quella che ha portato a Kabul. La strada è anche assai più faticosa, perché su di essa siamo noi a dover camminare, non militari o Paesi lontani. E camminare vuol dire modificare nostri modi di vivere, nostri pensieri, nostri sistemi politici. Possiamo chiederci: abbiamo incominciato?» («Corriere della Sera», 18.11.01). Ma se ciò vale per l’economia e la politica, perché non dovrebbero aprirsi anche nel campo della moralità nuovi spazi per un rinnovato impegno di serietà e di giustizia, per una ricerca del significato profondo della vita, per una maggiore apertura sul mistero di Dio? Non ha forse Dio «rinchiuso tutti nella disobbedienza» di conflitti senza via di uscita «per usare a tutti misericordia?» (cfr. Rom 11, 32).
Ma non è così importante sapere se ciò si avvererà presto. In fondo, come diceva Bonhoeffer, «per chi è responsabile la domanda ultima non è: come me la cavo eroicamente in questo affare, ma: quale potrà essere la vita per la generazione che viene? Solo da questa domanda storicamente responsabile possono nascere soluzioni feconde» (Resistenza e Resa, p. 64). Ciò che dunque urge è dirci che se non avviene un cambio radicale nella scala dei valori, se non vengono messi al primo posto la pace, la solidarietà, la mutua convivenza, l’accoglienza reciproca, l’ascolto e la stima dell’altro, l’accettazione, il perdono, la riconciliazione delle differenze, il dialogo fraterno e quello politico e diplomatico, mentre vengono contemporaneamente messe al bando le rappresaglie della guerra, se non vengono disarmate non solo le mani ma anche le coscienze e i cuori, noi avremo sempre a che fare con nuove forme di violenza e anche di terrorismo. Riusciremo magari a spegnerle per un momento ma per vederle poi risorgere impietosamente altrove.
Come ha ripetuto ancora il 4 dicembre 2001 il Papa a proposito del conflitto in Medio Oriente: «La violenza non risolve mai i conflitti, ma soltanto ne accresce le drammatiche conseguenze». Ha perciò lanciato «un nuovo pressante appello alla comunità internazionale, affinché con sempre maggiore determinazione e coraggio aiuti israeliani e palestinesi a spezzare questa inutile spirale di morte. Siano ripresi immediatamente i negoziati, perché si possa giungere finalmente alla tanto desiderata pace». Inoltre il Papa ha stimolato, con un gesto assolutamente nuovo nella storia del rapporto Cristianesimo-Islam, tutti i cattolici a unirsi spiritualmente il 14 dicembre prossimo alla conclusione del solenne digiuno musulmano del Ramadam, per affermare che c’è e ci deve essere un clima di rispetto tra le due religioni. Di qui avrà inizio un particolare tempo di conversione, di ritorno al Signore nel cammino faticoso della storia verso la pienezza della verità e della carità, che culminerà il 24 gennaio 2002 in una grande preghiera interreligiosa per la pace ad Assisi con la partecipazione del Papa. Sono gesti che intendono affermare a tutto il mondo che mai per nessun motivo le religioni devono divenire fonte di conflitto, ma al contrario occasione e strumento di pace.
Aperture nuove
Devo avviarmi a concludere questo discorso, che inevitabilmente rischia di coinvolgerci in sempre nuove direzioni, perché la violenza e il male sono dappertutto e stanno alla radice di tutto. Ma il bene zampilla da una sorgente ancora più profonda e innaffia, risana e rigenera continuamente questa radice di male e di amarezza. È importante però che riconosciamo che dobbiamo fare ciascuno la nostra parte e ascoltare l’appello che ci raggiunge. Il momento drammatico che stiamo vivendo è un forte richiamo alla conversione e al riconoscimento della nostra connivenza con i mali del mondo. Sottolineo: con i mali di tutti, sotto ogni latitudine e non del solo mondo occidentale. Certamente esso ha i suoi gravissimi torti, le sue cecità, i suoi idoli, i suoi deliri di onnipotenza. Per questo la Chiesa, neppure quella Occidentale, che cioè ha vissuto storicamente e tuttora vive in questo ambito e si è sempre sforzata di dargli un’anima, non si è mai riconosciuta né identificata del tutto con esso né tanto meno si identifica ora in un ambito nel quale gloriose tradizioni di libertà e dignità umana convivono — in un clima crescente di compromissione — con un individualismo senza regole, con il culto del denaro, del successo, dell’immagine e della potenza. Ma pur con tutto ciò non dobbiamo ritenere che sia solo il nostro mondo occidentale quello chiamato da Gesù a cambiar vita. Il Signore afferma due volte, nel testo di Luca da cui siamo partiti (13, 3.5): «se non cambierete vita, perirete tutti!». La follia dell’autodistruzione, che assume nelle odierne culture innumerevoli forme, minaccia tutti quanti. Gli spettri della corruzione, del malgoverno, del prevalere dell’interesse privato e tribale su quello pubblico, della dittatura e del primato della forza e delle armi, stanno succhiando il sangue di innumerevoli poveri della terra… Sarebbe troppo facile trovare un solo capro espiatorio e una sola vittima. Zizzania e buon grado sono intrecciati profondamente in ogni angolo del pianeta. Gesù sa che il male è nascosto nel cuore di ogni uomo e di ogni cultura, sa che siamo «generazione incredula e perversa» (Mt 17, 17).
Dobbiamo in altre parole renderci conto che di certe pesti che ammorbano il mondo (e di cui i conflitti bellici e gli attentati sono una delle manifestazioni) non è soltanto colpevole l’uno o l’altro individuo o popolo lontano da noi o vicino a noi, ma ne siamo tutti in qualche modo, ciascuno per la sua parte, conniventi e corresponsabili.
Se, spinti da eventi tragici che mai avremmo voluto neppure immaginare, l’invito di Gesù a cambiare scala di valori e criteri di giudizio cominciasse a venire accolto, ne emergerebbe una società più pensosa, una gioventù meno dissipata e meno avida di divertimenti, conscia delle proprie responsabilità per il futuro del pianeta; pronta anche ad ascoltare il richiamo per aprirsi a esistenze consacrate al servizio totale di Dio e del prossimo. E di tutto questo inizio di cammino positivo noi, grazie a Dio, siamo anche i gioiosi testimoni, per poco che sappiamo guardarci intorno con gli occhi della speranza.
Il grande bene della pace
Ma non potrei concludere questo discorso senza ritornare a quella che ne fu la sua ispirazione principale fin dall’inizio, cioè il grande bene della pace: se abbiamo infatti cominciato con l’ascoltare Gesù che parlava della violenza (Lc 13, 1-5), ciò era solo perché a Lui — e oggi alla sua Chiesa — una cosa sta sommamente a cuore: la pace!
Infatti la pace è il più grande bene umano, perché è la somma di tutti i beni messianici. Come la pace è sintesi e simbolo di tutti i beni, così la guerra è sintesi e simbolo di tutti i mali. Non si può mai volere la guerra per se stessa, perché è sistematica violazione di sostanziali diritti umani. Vi saranno al limite casi di legittima difesa di beni irrinunciabili. Però il contrasto all’azione ingiusta, non di rado doveroso e meritorio, deve restare nei limiti strettamente necessari per difendersi efficacemente. Potranno anche essere necessarie coraggiose azioni di “ingerenza umanitaria” e interventi volti alla restituzione e al mantenimento della pace in situazioni a gravissimo rischio. Ma non saranno ancora la pace.
Pace non è solo assenza di conflitto, cessazione delle ostilità, armistizio. Non è neppure soltanto la rimozione di parole e gesti offensivi (Mt 5, 21-24), neppure solo perdono e rinuncia alla vendetta, o saper cedere pur di non entrare in lite (cfr. Mt 5, 38-47). Pace è frutto di alleanze durature e sincere, (enduring covenants e non solo enduring freedom), a partire dall’Alleanza che Dio fa in Cristo perdonando l’uomo, riabilitandolo e dandogli se stesso come partner di amicizia e di dialogo, in vista dell’unità di tutti coloro che Egli ama. In virtù di questa unità e di questa alleanza ciascuno vede nell’altro anzitutto uno simile a sé, come lui amato e perdonato, e se è cristiano legge nel suo volto il riflesso della gloria di Cristo e lo splendore della Trinità. Può dire al fratello: tu sei sommamente importante per me, ciò che è mio è tuo. Ti amo più di me stesso, le tue cose mi importano più delle mie. E poiché mi importa sommamente il bene tuo, mi importa il bene di tutti, il bene dell’umanità nuova: non più solo il bene della famiglia, del clan, della tribù, della razza, dell’etnia, del movimento, del partito, della nazione, ma il bene dell’umanità intera: questa è la pace.
Ogni azione contro questo “bene comune”, questo “interesse generale” affonda le radici nella paura, nell’invidia e nella diffidenza. Genera i conflitti e nutre gli odi che causano le guerre. Ci vorrà una intera storia e superstoria di grazia per compiere questo cammino. Ma è questa la pace che è meta della vicenda umana.
Alcuni imperativi immediati
1. Abbiamo anzitutto un grande bisogno di percepire dentro di noi una fontana zampillante di pace che ci apra alla fiducia nella possibilità di passi concreti e semplici verso un cambiamento di stile di vita e di criteri di giudizio, unica via a un cammino serio di pace. Evitiamo di lasciarci intorpidire da un clima consumistico prenatalizio che rischia di farci rimuovere le domande serie emerse da questi fatti drammatici.
2. Per evitare di essere trascinati, anche non intenzionalmente, in uno scontro di civiltà, occorrerà esercitarsi nell’arte del dialogo, che parte da una chiara coscienza della propria identità e della ricchezza dei linguaggi con cui esprimerla e renderla accessibile smontando i pregiudizi, i cavilli e le false comprensioni.
3. Per questo sarà importante imparare a conoscere le altre religioni, in particolare l’Ebraismo e l’Islam, scrutando di ciascuna la storia, letteratura, le ricchezze spirituali, le profondità mistiche, il pluralismo espressivo, anche quello sociale e politico.
4. Ma soprattuto occorrerà educare a gesti, pensieri e parole di perdono, di comprensione e di pace, usando tolleranza zero per ogni azione che esprima sentimenti di xenofobia, di antisemitismo, di minor rispetto di qualunque sentimento e tradizione religiosa. Questo richiede che anche gli altri rispettino e apprezzino quei segni religiosi che sono stati e sono tuttora per noi la via e il simbolo che ci permette oggi di offrire a tutti ospitalità e pace.
5. È superfluo ricordare quanto la scuola e l’università siano chiamate a educare al dialogo, al confronto sereno, per aiutare a riflettere motivatamente sui gravi problemi in discussione a livello internazionale ma anche nazionale e regionale (e non soltanto perciò sui temi della pace e della guerra, ma anche oggi su temi per noi gravi e urgenti come la giustizia e la sanità). Grande sarà in questo senso il compito e la responsabilità dell’autonomia scolastica.
Ci conforta e ci fa ben sperare l’anniversario che si ricorderà domani, quello dell’apertura, 80 anni fa, proprio a pochi metri da questa Basilica di Sant’Ambrogio, in via Sant’Agnese, dei corsi della neonata Università Cattolica del Sacro Cuore. Incominciò con 68 iscritti. Oggi sono oltre 40.000. Auguriamo ad essi e a tutti i giovani del mondo di essere, per il millennio che inizia, come le “sentinelle del mattino” che annunciano il giorno della tanto desiderata pace.