Nel 2000 nasce Grazia Maria. E quel senso di mistero li travolge: verso i tre mesi si accorgono che qualcosa non va, la bambina dorme sempre ed è ipotonica. La diagnosi arriva dopo una montagna di consulti:
encefalopatia congenita. Grazia Maria
non avrebbe camminato, parlato e avrebbe vissuto in una dipendenza totale dagli altri. «Abbiamo cercato le cure migliori, valutando anche di andare all’estero, ma presto ci siamo resi conto del rischio di accanirci nel voler trovare soluzioni», racconta Alberto. Grazia Maria ha una sua stabilità e non peggiora. Paola e Alberto mettono in campo tutto quello che la può aiutare, ma capiscono che
non possono coagulare le loro energie solo su di lei. Ci sono loro e soprattutto ci sono i bambini.
È la realtà, con tutti i suoi particolari, a dettare i passi della loro vita familiare, che trova il suo equilibrio proprio nell’accogliere ciò che accade. Succede così quando, nel 2002, nasce Cecilia. Lei si ritrova a dividere tutto con Grazia Maria: l’essere imboccata, lavata e cambiata, l’essere spinta in passeggino. Ma pur nella fatica della gestione, la presenza di Grazia Maria si impone come il fattore attorno a cui tutti crescono. «Lei era il nostro pass permanente per arrivare subito all’essenziale. Quando c’erano problemi, quando si era tristi, bastava guardarla, paziente e docile, per ripartire», racconta Alberto, che in quel periodo si era inventato un ritornello che ripeteva spesso come una preghiera: “Grazia Maria, il Mistero in casa mia”. I bambini lo prendono in parola. Francesco, che da subito ha avuto un rapporto speciale con Grazia, quando di notte aveva paura e non riusciva a dormire, andava da lei e si rannicchiava nel suo letto. «Nella sua estrema debolezza, Grazia Maria era la cosa più rassicurante, era la mia roccia. Anche quando sono diventato più grande, vederla così disponibile, sempre abbandonata alle operazioni di un altro, trasformava la mia insofferenza».
Guglielmo ricorda come da piccoli cercavano di coinvolgere la sorella nei loro giochi, e «questo perché percepivo la sua presenza silenziosa come qualcosa di prezioso. Non lo capivo bene, ma avevo dentro lo sguardo con cui la guardavano i miei genitori. Mio padre si inginocchiava davanti a lei tutte le sere prima di andare a dormire. Ho sempre intuito che quel gesto era ciò che permetteva alla nostra famiglia di essere bella. Oppure, mia madre che con una catena infinita di azioni quotidiane, spesso mortificanti, era il motore della vita di Grazia Maria. Così anche per me era spontaneo salutarla al mattino, con un’attenzione particolare, una carezza, un bacio. Magari ero brusco con tutti, ma con lei non potevo…».
Nel 2007 la famiglia Mina si trasferisce in Lombardia, a Milano. Vanno a vivere in una cascina alle porte della città. Grazia Maria inizia a frequentare le scuole elementari. E Paola scopre di essere di nuovo incinta. L’anno successivo nasce Carlo. La vita a Milano corre sui binari di ogni altra famiglia: le scuole, gli sport, le vacanze e le cene con gli amici. Muoversi con Grazia Maria è spesso complicato, ma ogni difficoltà è ampiamente ripagata: «Lei è sempre stata un po’ come il nostro vessillo. Andando in giro con lei era facile entrare in rapporto con la gente, perché tutti reagivano alla sua presenza. Nessuno la ignorava. Lei ti faceva uscire da quella distanza difensiva che ti fa sentire impermeabile a tutto. Con il solo suo esserci, ti coinvolgeva e ti ritrovavi protagonista di dialoghi e incontri inaspettati».
È ciò che Cecilia, l’altra figlia femmina della famiglia, cerca in Grazia Maria e allo stesso tempo fugge. «Ho sempre fatto fatica a stare con lei, tentavo di evitarla e non volevo invitare a casa i miei compagni di classe. Mi sentivo inadeguata. Mi misuravo continuamente. Quel dolore innocente era troppo per me…». Poi però, mentre faceva shopping, comprava sempre qualcosa anche per lei. Oppure dopo la doccia, le metteva lo smalto per le unghie e la maschera per il viso. «Anche nella distanza, il rapporto con mia sorella mi ha costruita, perché pensare alla contraddizione che viveva mi ha fatto sorgere sempre un sacco di domande», racconta Cecilia. «Lei poi non mi ha mai giudicata. Tutte le volte che tornavo, mi riaccoglieva, illuminandosi, che era il suo modo per comunicare la gioia perché c’ero».
Negli ultimi anni le condizioni cliniche di Grazia Maria peggiorano. Le convulsioni la sfiancano quasi ogni giorno. Durante le crisi sono la mamma e Francesco a prenderla in braccio. «Per me era un gesto naturale», spiega Francesco da un anno laureato in Fisioterapia: «È il mio mestiere, ma spesso mi chiudevo per il dolore, perdendo di vista l’abisso di domanda che la sua sofferenza provocava. È negli occhi dei miei fratelli, che ci assistevano a distanza, a volte spaventati, che riguadagnavo la verità di Grazia Maria. Perché in loro la domanda sul significato di ciò che vivevamo non si spegneva».
A luglio scorso, per il suo ventesimo compleanno papà Alberto le scrive una lettera: «Da vent’anni sei la Grazia della nostra famiglia. La bellezza della tua persona ci lascia sempre sgomenti. Essa non contrasta per nulla con la tua deformità. Ma soprattutto il tuo sguardo è un’evocazione senza fondo. È come se tu dicessi sempre “fiat”, accada di me quello che vuoi». È il suo ultimo compleanno. La sera del 14 marzo, Grazia Maria muore, dopo alcuni giorni in cui gli attacchi epilettici non le danno tregua. «Quella sera ho detto ai fratelli: “Questa cosa è anche un sollievo: per noi, per la mamma e per lei”», racconta Carlo, che ora ha 12 anni: «Stare con mia sorella era difficile, mi stufavo in fretta perché per una risposta bisognava aspettare anche cinque minuti. Però ora mi pento per come l’ho trattata e sento che ho perso qualcosa di importante: lei senza dire una parola, senza poter far niente nelle sue giornate, era amata da noi e questo le bastava».
Alla fine del Rosario, recitato in video collegamento con 400 amici da ogni parte del mondo, Javier Prades, sacerdote spagnolo, li saluta così: «Grazia Maria si è consegnata a voi interamente, come solo chi è così bisognoso può fare, e voi vi siete consegnati a lei interamente, dando vita a una unità che coinvolge anche chi vi incontra. Finora è stato uno spettacolo. Ma come dice il Vangelo di san Giovanni: vedremo cose più grandi di queste, il meglio deve ancora venire».
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Guglielmo ne scorge i primi segnali nel fiume di amici che in queste settimane è passato da casa. Entrati per confortare, sono usciti confortati. Perché sfiorati, anche solo per un attimo, da quella gratuità che può sfociare solo dalla strettoia per cui questa famiglia è passata. «Mi colpisce come l’unità tra di noi ha fatto esplodere in tanti il desiderio di una radicalità nello studio, con la ragazza e con le proprie ferite», racconta Guglielmo. «È qualcosa che abbiamo respirato da sempre. Quando eravamo piccoli, papà spesso non era a casa. Ma non lo percepivo come assente, perché in mamma c’era anche papà. Erano così insieme che, se anche uno non c’era, era come se ci fosse». Un’unità irrigata incessantemente da ciò che Paola e Alberto si sono detti, ventisei anni fa, su quel marciapiede di Torino. «Io sono sempre in giro, faccio mille cose», racconta Guglielmo, «però ogni tanto ho bisogno di tornare a casa, di tornare dove tutto è cominciato».