I colloqui con i genitori degli studenti fanno emergere spesso il contrasto tra il desiderio di ciò che di buono desideriamo per i figli e il modo in cui vivono. Desideriamo che studino e non studiano, che parlino e non parlano, che siano sinceri e mentono, che siano affettuosi e grugniscono… Insomma desideriamo il bene che loro si ostinano a rifiutare. La conseguenza è l’esasperazione: dagli interrogatori ai rimproveri, dalle punizioni alle sostituzioni (fare le cose al posto loro). Sembrano «alieni», parola latina che ricorda galassie remote ma vuol dire soltanto «altro da me»: non di mio possesso. Di recente ho ricevuto da una madre, che aveva partecipato a una serata su educazione e scuola, una lettera che parla del figlio proprio in questi termini: «Sono la mamma di un Ufo (15 anni, 1.86 cm di altezza ) nel pieno della sua “ufaggine”, la settimana scorsa ho partecipato all’incontro con lei. Due ore che mi hanno permesso di uscire dai miei sensi di colpa, di trovare risposte ai miei quesiti e quindi di provare a fare l’inatteso, l’inaspettato». All’inizio di questi incontri dico sempre: «Io non ho la soluzione. La soluzione siete voi, se non vi identificate con i sensi di colpa che vi paralizzano». Che cosa ha fatto quindi di «inatteso» questa madre?
Vorrei partire da Coda (acronimo di Children of Deaf Adults: «figli di genitori sordi»), premiato come miglior film ai recenti Oscar. Rifacimento di un bel film francese del 2014 narra la storia della famiglia Rossi, di Gloucester, nel Massachusetts, composta da madre, padre e due figli, un ragazzo e una ragazza. I primi tre sono sordi, l’ultima, Ruby, sente ed è, grazie alla lingua dei segni, l’interprete tra i familiari e il mondo. Lavorano come pescatori e Ruby deve rendere compatibili le uscite notturne con la scuola. Senza di lei sarebbe impossibile portare avanti l’impresa familiare. La ragazza però scopre la sua vocazione e, grazie a un maestro speciale, si prepara per entrare in una scuola che la porterebbe lontano da casa. Il desiderio di aiutare la famiglia da lei dipendente e quello di prendere il largo entrano in conflitto, i rapporti familiari si incrinano, sembra non ci sia una via d’uscita: tradire i suoi o se stessa? Il film mi ha ricordato ciò che il grande psichiatra Alfred Adler diceva della felicità: le nostre infelicità dipendono dai rapporti interpersonali nei quali non si attua una giusta «divisione dei compiti», cioè non facciamo la nostra parte e/o pretendiamo di fare quella degli altri. Per esempio, il genitore con il figlio che non studia è frustrato e cerca di farlo reagire invadendo il compito del figlio: rimproveri, controllo, punizioni… Si concentra sul risultato facendosi carico di un compito che non è suo, con esiti distruttivi per la relazione. Il segreto è invece lavorare sulla «divisione dei compiti»: quello del genitore è mettere il figlio in condizioni di studiare, ma è solo il figlio a decidere se farlo o meno, assumendosene tutte le conseguenze, nel bene e nel male. Potrebbe sembrare un atteggiamento lassista, ma è il contrario perché spinge verso una creatività più impegnativa proprio perché libera dalla reattività dei sensi di colpa che portano all’intromissione e al controllo. Lo spiega bene un bel libro che divulga la psicologia adleriana: «C’è un modo semplice per stabilire di chi sia il compito: chiedersi chi sia il destinatario del risultato prodotto dalla scelta. Quando il bambino sceglie di non studiare, il risultato della decisione – restare indietro rispetto ai compagni o essere accettato nella sua scuola preferita – non è destinato ai genitori, bensì al bambino. In altre parole, studiare è compito del bambino. Oggi molti genitori usano l’espressione «per il tuo bene», ma lo fanno per raggiungere i propri obiettivi, che possono essere la bella figura, il bisogno di darsi delle arie o il desiderio di controllo, per esempio. In altre parole, non è per il tuo bene, ma per quello dei genitori. Il bambino si ribella proprio perché intuisce l’inganno… La psicologia adleriana non consiglia la non interferenza, l’atteggiamento di non sapere e di non essere nemmeno interessati a sapere che cosa faccia il bambino. Se il problema è lo studio, il genitore gli spiega che è compito suo e che è pronto ad aiutarlo ogni volta che ha voglia di studiare, ma senza intromettersi. Quando il bambino non fa alcuna richiesta, impicciarsi non serve a niente. Forzare il cambiamento ignorando le intenzioni della persona serve soltanto a provocare una reazione negativa» (Ichiro Kishimi e Fumitake Koga, Il coraggio di non piacere).
Riuscire a far questo non è per nulla facile, preoccupati come siamo dai risultati e dall’immagine personale ma, come dice un adagio: «Porta il cavallo all’acqua, sarà lui a decidere se bere», il compito dell’educatore è portare all’acqua, bere resta una scelta dell’altro. E questo vale in ogni ambito educativo (e non solo): dal rifare il letto alla scelta universitaria. Spesso crediamo di aiutare i ragazzi sostituendoci a loro: non solo li costringiamo a bere ma a volte beviamo al posto loro! Fare la nostra parte è evitare sia l’indifferenza sia il controllo, il nostro compito è ribadire la presenza («Studiare è compito tuo, ma se hai bisogno sono qui»).
Questo comportamento richiede la rinuncia alle nostre aspettative a favore della fiducia e restituisce al ragazzo il suo protagonismo: le conseguenze delle sue scelte sono solo sue. Così lui cresce e noi a poco a poco ci liberiamo dal senso di colpa e dall’ansia del risultato, che sono basati sul nostro bene non sul suo.
In questi anni di insegnamento ho imparato, sbagliando tante volte prima di capirlo, a dare questo tipo di fiducia, senza più sentirmi frustrato quando vengo «tradito» dai ragazzi o non rispondono alle mie aspettative. Questo mi ha portato a escogitare gesti educativi dall’esito sorprendente: se li porti all’acqua e hanno sete, berranno. Accade per esempio con la lettura dei libri: racconto perché li do loro da leggere, perché mi hanno tolto il sonno e cambiato la vita, creo curiosità, stabilisco una scadenza e poi ne uso dei passi per le tracce dei temi o per chiacchierate in classe… ma non controllo se li abbiano letti davvero, questo emerge in modo naturale in base al loro coinvolgimento o ai loro silenzi. In questo modo molti li leggono, altri fingono di farlo, altri non li leggono (esattamente ciò che accadrebbe se attuassi pratiche di controllo). Non mi interessa che li abbiano letti «per me» o «per il loro bene», non sono un poliziotto che gestisce bambini, ma un adulto che fa la sua parte: «ti porto all’acqua, se vuoi dissetarti decidi tu». L’esito è che si sentono spinti a fare la loro parte più che se li obbligassi.
Nella serata a cui aveva partecipato la madre della lettera, avevo suggerito che, quando un adolescente si chiude e non si sa come aiutarlo, esasperandosi, è ora di dividere di nuovo i compiti: che cosa devo fare io e cosa lui? Per esempio, ho suggerito, si può scrivere una lettera (agli alieni mandiamo segnali nello spazio!). In righe scritte a mano un genitore può aprire il cuore al figlio, dicendogli che vede le sue difficoltà e che vorrebbe essergli più vicino, ma non sa come fare e così, a volte, sbaglia modi e toni, e ne soffre. In una lettera che dice indirettamente «se hai bisogno ci sono, ma sei tu che mi devi parlare», non è protagonista il dito puntato contro il tu per ciò che mi aspetto, ma il dito rivolto verso sé e ciò che provo. Un ragazzo che riceve queste parole, le legge e rilegge e, se vorrà, si aprirà, ma di sicuro lo avremo portato all’acqua: sarà lui a scegliere. E così diventa protagonista, cioè più libero.
Come è andata a finire? Come racconta la madre: «Scrivere delle lettere ai miei figli non è cosa nuova, ma non so perché ultimamente presa dal “panico da ufo” non ci ho pensato. Grazie per avermi fatto uscire da un sentimento che mi stava paralizzando, di avermi permesso di vedere più risorse nel mio adolescente, di avermi ricordato che scrivere una lettera è qualcosa che unisce, di avermi spinto a comportarmi in modo contro-intuitivo, fermandomi davanti alla mia impazienza, rabbia, incazzatura e, invece di fare come sempre, agire esattamente all’opposto: sorprendere. Ha funzionato: l’Ufo mi ha cercata, si è aperto, ha condiviso le sue difficoltà, ha pianto… ci siamo abbracciati, o meglio lui ha abbracciato me e quindi io lui (che gran cosa da un adolescente nel pieno del distacco!)». Questo piccolo esempio fa vedere, come accade nel film Coda, che è il linguaggio inventato dall’amore che sa dividere i compiti ad abbattere le barriere relazionali, la soluzione non è sostituirsi all’altro invadendo il suo campo, ma lavorare ciascuno il proprio: questo fa crescere la relazione e rende i soggetti liberi da quelle aspettative e sensi di colpa, che generano frustrazione e controllo. Solo così scopriremo che alieni e ufo non sono così pericolosi (avete visto il film Arrival?), si tratta di trovare quella lingua universale che salva perché porta a compimento pieno la propria identità non attraverso il contrasto e la riduzione dell’altro a me (guerra), ma attraverso la relazione, cioè mettere insieme le differenze per un progetto più grande (pace). E questo vale per ogni rapporto umano.
Fonte: A. D’AVENIA | Corriere.it