Un errore frequente degli adulti è proiettare sui giovani un’immagine di loro. Così ci si impedisce di ascoltarli e riconoscerli. E la scuola non educa
Molto si è detto e si continua a dire sulla sofferenza e sulle difficoltà che la pandemia ha generato non solo nel mondo degli adolescenti, ma anche tra i più piccoli. Spesso si è anche osservato che si tratta di disagi, fatiche, che c’erano già prima e che la pandemia ha solo acuito.
Atti di autolesionismo, disturbi alimentari, depressioni, manifestazioni emotive spesso incontrollate, fino all’esplicitazione di volontà di suicidio sono disagi che arrivano anche nelle nostre scuole e che non possono lasciarci indifferenti. Si tratta di appelli, di richieste di aiuto a cui il mondo degli adulti non può sottrarsi. Spetta infatti a loro, a noi la responsabilità di aiutare i più giovani a trovare, oltre il disagio, una ragione, una strada per inoltrarsi con maggior fiducia nel mondo.
Quali risorse ha la scuola per poter muoversi in questa direzione?
Innanzitutto l’alleanza educativa tra scuola e famiglia: una condivisione di intenti che pone al centro lo studente con i suoi bisogni e la sua unicità.
Quando a scuola emergono difficoltà, di qualunque natura esse siano, non solo quindi quelle emergenziali di cui si è detto sopra, occorre innanzitutto confrontarsi e dialogare con le famiglie, mettendo al centro il bene del ragazzo, il suo cammino di crescita.
Sembrerebbe un’affermazione scontata, ma non accade sempre così.
Spesso infatti durante i colloqui l’adulto si preoccupa innanzitutto di difendere un’immagine di sé o del ragazzo e quindi non è realmente disposto al dialogo, ad ascoltare l’altro, quegli eventuali elementi di novità che potrebbero chiedere di cambiare l’idea che abbiano di noi stessi e dello studente. Succede così sia ai genitori sia agli insegnanti di essere più attaccati all’immagine che si sono fatti dello studente che al suo reale bisogno.
Sarebbe invece auspicabile fare un passo indietro rispetto alla presunzione di sapere qual è il bene dell’altro, dello studente o del figlio a noi affidato e mettersi in ascolto.
Il disagio, la fatica, le contraddizioni chiedono all’adulto di mettersi in gioco, di privilegiare uno sguardo aperto, consapevole che nessuno conosce fino in fondo l’altro che ha davanti e che anche all’adulto più attento possono sfuggire comportamenti e caratteristiche del piccolo uomo o della piccola donna che sta crescendo.
“Solo io conosco fino in fondo mio figlio e so la fatica che mi costa sostenere la sua crescita e le sue difficoltà fin da quando era piccolo”. “Non è possibile che mia figlia si comporti in questo modo, io la conosco, sarà stata sicuramente provocata da altri”. “Ma questi atti compiuti avranno conseguenze sulla valutazione finale del comportamento, anche se non è stato il solo a compierli?”“In questo periodo stiamo osservando una fatica, cambiamenti d’umore, difficoltà a concentrarsi”. “Guardi, a casa è tutto come prima, mia figlia non ha alcun problema, sono a scuola i problemi”.
Sono esempi di stralci di conversazione tra scuola e famiglia, dai quali appare la volontà di difendersi, di imputare ad altri la responsabilità, di faticare ad accogliere un punto di vista diverso.
L’educazione è un compito impegnativo che chiede sapienza, soprattutto nel giusto equilibrio tra necessità di accompagnare e sostenere, senza sostituirsi all’avventura personale di muoversi nel mondo.
Forte è invece la tentazione di proteggere, di coprire la responsabilità di chi si ha davanti, di sostituirsi, evitando all’altro il rischio della libertà, che è l’unica strada per diventare adulti.
Mettere al centro il bene di chi sta crescendo, riconoscergli la grandezza della sua unicità e quindi della sua libertà di essere umano alla ricerca di una soddisfazione e di una realizzazione nella vita è la prima mossa essenziale di quella alleanza educativa di cui si parla da tempo.
Quali passi è possibile muovere per avvicinarsi a questa meta?
Il primo passo riguarda la disponibilità degli adulti, genitori e insegnanti a stare con i ragazzi, ad offrire pazientemente la loro vicinanza, che non è fatta di complicità, di assunzione di comportamenti adolescenziali pensando così di essere più compresi, ma di presenza autorevole di chi si è addentrato da più tempo nel cammino della vita e che ha quindi un’ipotesi di senso non da imporre, ma da offrire alla libertà dell’altro.
Non servono regole che rischiamo di soffocare e di impedire una reale assunzione di responsabilità verso la realtà che interroga e sfida adulti e giovani a una risposta alle sue continue sollecitazioni e sfide, a volte drammatiche come la cronaca degli ultimi tempi documenta costantemente, ma una presenza che incarna il bene e il senso del limite.
Il secondo passo riguarda l’attenzione esplicita, condivisa tra famiglia e scuola, alle non cognitive skills, che aiuta ad avere uno sguardo più aperto e indirizzato alla crescita globale dei ragazzi.
Creare occasioni di dialogo che non si limitino alla qualità delle prestazioni scolastiche, ma che si allarghino anche a considerazioni su questi aspetti della personalità dello studente è un elemento indicatore di una reale volontà di mettere al centro nella relazione scuola – famiglia il cammino di crescita del ragazzo.
Anche in questa prospettiva l’essenziale è la vicinanza ai ragazzi, l’aiuto alla loro crescita. Non si tratta infatti di valutare le non cognitive skills, quanto di promuovere negli studenti, con una consapevolezza diversa in relazione alle differenti età, un’autovalutazione di queste competenze.
È importante per la crescita di un ragazzo, per esempio, lavorare sulla stabilità emotiva, saper contenere la rabbia, cogliere il valore della collaborazione con gli altri, della tenacia nell’impegno, ma a tutto questo si arriva se non si è lasciati soli, se si è certi di essere accompagnati e sostenuti da adulti attenti, ma anche esigenti, che non si sostituiscono ai più piccoli nel rischio dell’azione personale e che non pretendono di indirizzare i ragazzi con immagini prefabbricare del loro futuro.
Un terzo possibile passo chiede alla scuola di essere sfidante per l’intelligenza, non ripetitrice di contenuti astratti, senza alcun coinvolgimento con la vita e capace di sollecitare la libertà nel rapporto con la trasmissione dei saperi, veicolati dalla tradizione della grande cultura del passato.
Il giovane non appartiene all’adulto, è un essere libero, che non può essere piegato con la forza alle immagini, fossero anche buone dei genitori e dei docenti. Non si può costringerlo ad imparare, imporgli la strada di una professione, anche se questa sembra essere la migliore in assoluto, quella che potrebbe garantire sicurezza e successo nel futuro.
Si tratta di riconoscere il bene assoluto della libertà dell’altro e di essere liberi dalla terribile tentazione dell’onnipotenza.
Il riconoscimento della libertà dell’altro come supremo valore aiuta a comprendere che il cuore dell’educazione sta nella relazione del soggetto con il mondo, come ci ricorda Meirieu (Frankenstein educatore, 2007): “L’educazione può sfuggire alle derive simmetriche dell’astensione pedagogica (in nome del rispetto per il bambino) e della fabbricazione di quest’ultimo (in nome delle esigenze sociali) solo centrandosi sulla relazione del soggetto con il mondo. (…) Questo è lo scopo dell’impresa educativa: che colui che viene al mondo sia accompagnato nel mondo e si addentri nella comprensione del mondo, che sia introdotto in questa comprensione da quelli che lo hanno preceduto… introdotto, ma non plasmato; aiutato, ma non fabbricato”.
Fonte: Nora TERZOLI | IlSussidiario.net