Una cultura che mostra allo sfinimento che il mondo fa schifo (malattie, guerre, violenza…) e di pari passo impedisce la possibilità di cambiarlo è una cultura del controllo e della paralisi. Gli esiti, soprattutto sui giovani, sono due: ripiegarsi sul proprio malessere vivendo nel tentativo di lenirlo oppure partecipare alla distruzione, rivolgendola contro se stessi o contro gli altri. Ne ho avuto evidenza l’altro giorno, quando ho accompagnato mia nipote a una lezione di skateboard in un parco frequentato da giovani. Ho ascoltato uno di loro che, tra un’acrobazia e l’altra, diceva: «Io fumo tante canne, ma quando sento di diventare dipendente smetto perché non trovo più sollievo, poi però dopo un po’ ricomincio perché ne ho bisogno. Ma divento di nuovo dipendente e così ricomincia il giro: ci sta, per sopportare tutto…». Un dolore «anestetizzato» non trova esito creativo, come accade ad alcuni dei dannati danteschi che, con la testa rovesciata indietro, piangono lacrime che si cristallizzano nelle orbite oculari in una visiera di ghiaccio che impedisce alle successive di uscire, moltiplicando la sofferenza. Vedo sparire ciò che caratterizza l’uomo e soprattutto i giovani: la capacità creativa, cioè slancio e impegno per cambiare il mondo, inventando il nuovo, proprio perché ciò che si ha attorno non piace, non basta, fa soffrire. Nel giovane skater il dolore non si trasforma in lotta o almeno in domanda inquieta come per il giovane della lettera. Eppure proprio quel dolore, se non venisse disattivato, diventerebbe essenziale per trovare la vocazione o, come si dice in giapponese, l’ikigai (far coincidere ciò che sai fare, ciò che ami fare, il condividerlo a beneficio degli altri e guadagnarsi da vivere con questo, insomma «il motore della vita»). Le crisi di destini sono crisi educative: famiglia e scuola servono proprio a far fiorire l’ikigai di ciascuno. Il report «Impossibile 2022» per i diritti dei minori, appena presentato a Roma da Save the children, ha evidenziato che in Italia alla povertà materiale (1,3 milioni di bambini in povertà assoluta) si associa quella educativa: il 51% dei ragazzi di 15 anni non comprende il significato di un testo e non sa sviluppare un ragionamento. Non sono cose che capitano per caso: in Italia la spesa welfare per i minori è solo il 2% (la media europea è il doppio), e siamo l’ultimo Paese dell’Ue per spesa pubblica totale a favore dell’istruzione (l’Europa ci piace solo per certe scelte e infatti la spesa per la Difesa è perfettamente nella media europea). L’Istat ha rilevato nel recente Rapporto sul Benessere che nel nostro Paese un giovane su quattro tra 15 e 29 anni non studia né lavora, primato negativo in Ue, inoltre gli Italiani di 30-34 anni in possesso di un titolo di studio terziario (università e corsi post-diploma) sono il 27% contro il 41% dei coetanei europei. Un Paese con un impegno (welfare e istruzione) insufficiente per i minori va in bancarotta di vocazioni. La situazione è peggiorata ulteriormente, nell’ultimo periodo, per quella che è stata definita «implosione cognitiva» dei ragazzi, frutto della combinazione di: confinamento, dad, uso dei social, ore di sonno perdute e diminuzione dei rapporti con i pari. Quando la vita viene paralizzata e non incoraggiata, il gelo cala su cuori e teste. Si ha l’illusione della libertà perché si possono scegliere mille cose online e nel metaverso, mentre l’universo interiore è congelato. Il contrario del ghiaccio è il calore delle relazioni che fanno da grembo al nostro sé autentico, a qualsiasi età. La fame di nascere è più radicale della paura di morire, ma se quest’ultima prevale il problema è culturale: interiorizziamo a tal punto la morte che la preferiamo alla vita, ci sentiamo in colpa di vivere e diventiamo incapaci di movimento. Ci vuole una ribellione prima di tutto interiore che parta proprio dal dolore per trasformarlo in azione, come bisognava fare a scuola alla ripresa dal periodo di dad (invece durante le lezioni siamo ancora, a fine maggio, seppur distanziati e con finestre aperte, con le mascherine, non necessarie nei locali e nelle discoteche frequentate dagli stessi ragazzi). Occorre mettere in discussione: una politica incapace di prendersi cura dei cittadini nei luoghi che ne sono la manifestazione più evidente (ospedali e scuole); una televisione ridotta a un’arena di identità che si definiscono attraverso lo scontro (dal reality al talk show passando per il talent); una scuola che non aiuta a prendersi cura di sé e del mondo, non basando la maturazione sulla vocazione che fiorisce ma sulla quantificazione del sapere e quindi sulla competizione; la parte dei social che spinge a costruire l’identità a partire dall’invidia. Il ghiaccio che abbiamo nel cuore è l’esito infernale di una cultura del controllo e non delle relazioni buone, da cui può emergere l’ikigai di ciascuno. A tal proposito mi ha colpito il fenomeno definito «Great Resignation» accaduto in Lombardia nel 2021: il 10% dei lavoratori a tempo indeterminato (419.754 su 4,4 milioni di occupati) si è dimesso per cercare un maggiore equilibrio vita-lavoro e la metà di loro hanno meno di 35 anni. Non è abbandono del lavoro ma spostamento verso uno nuovo dove ci sono motivazioni e condizioni migliori. Il panorama può sembrare cupo ma ci sono già buone notizie, si sta dimostrando insostenibile la cultura del controllo, illusione moderna che pretende di realizzare la vita, individuale e sociale, attraverso il dominio (dell’anima, dell’altro, della natura). Urge invece incoraggiare una cultura della libertà attraverso le relazioni buone in cui l’espressione «sono libero» non sarà più sinonimo di «sono single», ma di «sono impegnato», proprio perché amando ed essendo amati il sé autentico trova la sua strada tra le mille menzogne e illusioni che promettono felicità al prezzo del controllo. In fondo nella lettera del ragazzo è già implicita la risposta nella sequenza: dolore, amore, coraggio, vocazione, per questo gli dico: accetta la tua crisi, entra nel tuo dolore, rispettalo e amalo come inizio di guarigione. Poi cerca maestri, amici, amori veri: riduci al minimo le relazioni essenziali e liberati di tutte quelle (fisiche e digitali) di controllo, a poco a poco, scoprendo la meraviglia che sei, troverai il coraggio di andare incontro alla vita anche se è dura, anzi scoprirai che proprio la sua resistenza è la materia prima della tua vocazione… E magari, invece di accendere la tv, tu che ancora hai la fortuna di comprendere un testo, leggi un libro che può dirti cose come quelle che da poco ha scritto un mio caro amico su Enea: «Nella storia di Enea la motivazione nasce soprattutto da un’esperienza d’amore, da un’esperienza relazionale. È proprio pensando alla moglie, al padre, al figlio, alle persone che ama, che Enea reagisce. In un tempo come il nostro, dominato dall’individualismo, non siamo più abituati a leggere la vita a partire dalle relazioni. E molto spesso vogliamo cercare solo dentro di noi, nella solitudine del nostro io, la motivazione per reagire, per poter fare la scelta giusta. Solo e soltanto quando la nostra vita entra in contatto con un amore diverso dal nostro io, lì scatta quella responsabilità che ci fa fare delle scelte che normalmente non faremmo. E se la prima cosa da fare è reagire, noi reagiamo sempre per amore di qualcuno» (Luigi Maria Epicoco, La scelta di Enea). Lo conferma Dante che, più si avvicina all’Amor che move il Sole e l’altre stelle, più vedrà uno scenario opposto a quello della paralisi glaciale: danza e coralità aumentano passo dopo passo (l’amore muove e com-muove, muove altri insieme). Sicuramente nel poeta agisce l’immagine della «pericoresi», termine greco che descriveva una bellissima danza circolare e che la teologia scelse per indicare la relazione tra le persone della Trinità in cui «il noi» è più della somma dei singoli e trabocca coinvolgendo gli uomini in grado pari all’amore che vogliono ricevere e dare, come accade in una coppia che dà la vita. L’opposto del cuore di ghiaccio è un cuore danzante: quando smettiamo di danzare, individualmente e socialmente, è perché abbiamo preferito il Controllo, che ci toglie la fatica di diventare noi stessi, all’Amore che invece liberi ci rende veramente, perché ci dà il coraggio di diventare noi stessi, costi quel che costi.
Fonte: Corriere.it