Il girasole di Montale e la domanda di Cecilia. Alla fine dell’anno scolastico, pubblichiamo il racconto di un professore di Italiano in un istituto tecnico.
Io non ho mai la fila fuori dalla porta per i colloqui dei genitori; insegnare Italiano in un istituto tecnico ha questo vantaggio: non si fa parte di quelle “materie di indirizzo” per cui occorre davvero studiare, quelle che un domani garantiranno una professione.
Poi, se in un documento scrivono “c’è la veva” o “se avrei” o bazzecole del genere, che importa? Se a questo si somma il fatto che con il registro elettronico i ragazzi non possono più nascondere i voti o le assenze, ecco che l’ora di ricevimento si svuota.
Non oggi però. Ha preso appuntamento la mamma di una ragazza di seconda, Cecilia, una di quelle brave ma non troppo, seria, un po’ timida, forse, ma una su cui tutto sommato non credo che avrò molto da dire.
È una bella signora giovane, elegante, dall’espressione un po’ contratta; iniziamo a parlare con i soliti convenevoli post pandemia: le mascherine, i vaccini, le quarantene. Mi dice che quest’anno la ragazza fa più fatica, in alcune materie è insufficiente. Io parto con il didattichese: “ci vuole un metodo di studio”, “prendere appunti”, “continuità nel lavoro”, “prepararsi giorno per giorno” e così per qualche minuto, con frasi che potrebbero adattarsi indifferentemente alla maggior parte degli alunni.
Finché mi interrompe o, meglio, sfrutta una pausa del mio sproloquio e quasi d’un fiato, come per togliersi un peso: «Mia figlia non parla. Passa i pomeriggi chiusa in camera sua, non esce, non so cosa fare. Mi aiuti le».
Resto spiazzato. Non stiamo più parlando dell’andamento didattico della figlia, qui la questione è del tutto diversa. Ed esula dalle mie competenze.
Io insegno Italiano. Devo far capire la differenza tra un complemento di termine e uno di specificazione, insegnare perché si usano le metafore, il gusto che dà il suono di una sinestesia, accompagnarli con Dante e Virgilio tra la “perduta gente”, sentire nostalgia per Zante o dei monti sorgenti dall’acque; abbiamo piani per la didattica inclusiva, progetti di motivazione allo studio, lezioni di educazione civica (o cinica, dipende), corsi di aggiornamento sull’alimentazione o sull’uso della tecnologia, siamo esperti di cyberbullismo.
Ma nessuno ci insegna o ci spiega come far uscire una sedicenne dalla sua stanza. Mentre questi pensieri mi attraversano come schegge impazzite resto a guardare gli occhi disperati di questa mamma farsi lucidi.
«Quando mia figlia torna da scuola io cerco di parlarle, le domando com’è andata la giornata, cosa hanno fatto a scuola…».
Faccio io: «Immagino il dialogo: “Com’è andata? Bene. Cos’hai fatto? Niente”». «Esatto, proprio così. Poi prende il suo piatto e scompare in camera. Ma l’altro giorno prima di chiudersi la porta alle spalle mi ha detto che avete letto in classe una poesia che le è piaciuta tantissimo. Non si ricordava neanche il titolo, mi ha solo saputo dire che si parlava di un girasole. Per questo sono qui da lei. È l’unico che l’abbia in qualche modo raggiunta. Mi dica, cosa devo fare?».
Capisco. Resto in silenzio. Ripenso alla poesia. Non sono certo io ad averla toccata, ma la poesia stessa. Portami il girasole ch’io lo trapianti / nel mio terreno bruciato dal salino: anche un materialista cinico come Montale, in uno sprazzo di realismo, ha dovuto ammettere che c’è una speranza perfino per la nostra aridità, il nostro terreno salino, e che questa speranza è possibile grazie alla bellezza.
“Portami”: c’è bisogno di qualcuno che ci doni, che ci mostri questa bellezza, perché da soli non possiamo darcela, questo mi è chiaro. Ma che questo “qualcuno” potessi essere io, ecco, a questo non avevo mai pensato.
«Signora, io non ho una ricetta da proporle. Le posso dire che proverò a parlare con Cecilia, vediamo…».
Si alza, mi ringrazia, ci salutiamo un po’ imbarazzati perché verrebbe spontaneo darsi la mano (ma non si può) e poi, malgrado la mascherina, scorgo una sorta di delusione o semplicemente preoccupazione, mentre io mi sento così inerme, incapace perfino di far capire a una ragazzina di sedici anni quanto valga la pena uscire dalla propria stanza.
Nei giorni successivi guardo Cecilia e cerco il momento giusto per incontrarla, poi è lei che rompe gli indugi. «Prof, le posso parlare?». Le rispondo che ovviamente sì, così ci incamminiamo lentamente per i corridoi della scuola. «Quest’anno non sto andando molto bene…». Sì, mi sono informato, effettivamente ha un paio di materie insufficienti, ma la incoraggio, lei è sempre stata una ragazza studiosa, c’è tutto il tempo da qui alla fine dell’anno per recuperare.
«Io non so perché mi devo alzare la mattina». Ecco il punto.
Per lei come per tutti, anche per me. Le faccio notare, goffamente, che però alla fine si alza e viene a scuola tutti i giorni.
«Sì, perché ho questo senso del dovere che mi spinge a fare quello che devo, ma comincia a non bastarmi più».
Cara ragazza, vorrei dirle, io insegno Italiano e Storia… Come faccio a dirti perché vale la pena alzarsi la mattina o uscire dalla propria stanza il pomeriggio?
Il mio silenzio vedo che dipinge la delusione sul suo volto, ma si possono trovare le parole giuste? Anzi, possono bastare delle parole?
«Cecilia, io ho la tua stessa domanda. Ogni giorno ci troviamo stretti tra desiderio e insoddisfazione e la nostra libertà sta nel decidere se vogliamo ascoltare l’uno o l’altra. Lo sai che ho parlato con tua mamma… Le ho detto che non ho ricette, ed è vero, ma una cosa la so: non siamo da soli. Non sei da sola. Cosa ne dici se ci trovassimo insieme a studiare un giorno alla settimana?».
Basta davvero così poco? A giudicare da come cambia la sua espressione sembrerebbe proprio di sì.
Nelle lezioni successive mi rendo conto che insegnare Italiano e Storia non è solo parlare di grammatica, retorica e letteratura. Attraverso le poesie passano le domande e i tentativi di risposta che possono aiutare me e loro a capire, a capirci di più, a mettere a fuoco quel desiderio a volte quasi fastidioso che ci spinge a cercare la felicità in tutto ciò che facciamo, perfino nella scuola e nello studio.
Scoprire che quella insoddisfazione ci può paralizzare, ma può anche essere la molla che ci fa alzare perché vivere da insoddisfatti è proprio una gran rottura.
Così leggiamo insieme quegli autori e quelle poesie che meglio sintetizzano la domanda che accomuna tutti, me e loro, anche se inevitabile arriva sempre la (lecita) domanda: «Prof, perché i poeti sono sempre tutti tristi?». Io rispondo citando un cantante-poeta, Luigi Tenco, a cui una volta hanno chiesto: «Perché scrivi solo cose tristi?». «Perché, quando sono felice, esco».
Cecilia chiede di intervenire, si alza in piedi, anche da dietro la mascherina si capisce che sta sorridendo; indossa una bella maglietta nera con un girasole, me l’ha mostrata prima della lezione tutta contenta, è un regalo di sua mamma… «A proposito di uscire – dice rivolta ai compagni – se volete possiamo trovarci a studiare insieme con il prof domani pomeriggio…».
Fonte: Paolo Covassi | CLonLine.org