Rendere pubbliche le proprie paure, arrivando a condividere le sedute analitiche, fa davvero bene? O è solo bulimia comunicativa?
È prassi comune, sia per il terapeuta che per il paziente, registrare le sedute che fanno. Serve al dottore per approfondire, riascoltando, il caso che ha in cura, e serve al paziente che può così capire di più i problemi che lo colpiscono. Esiste però il segreto professionale, tanto che il terapeuta non è obbligato neanche in caso di indagine di polizia a rivelare il contenuto di quanto lui e il paziente si sono detti. Un po’ come il sacramento della confessione. Ci sarà un motivo, se si giunge a tanto.
Che Fedez abbia diffuso pubblicamente le registrazioni di alcune sue sedute analitiche è una decisione sua, che può prendere, anche se un serio professionista, quello che lo ha in cura, avrebbe dovuto porre dei paletti. Probabilmente ha tentato di farlo, non lo sappiamo.
In questi giorni vengono sbandierate interviste a professionisti che dicono quanto ha fatto bene Fedez a diffondere le testimonianze delle sue sedute: “È facile cadere nella tentazione di pensare a una strumentalizzazione della malattia, a una trovata per ottenere centinaia di migliaia di like, cosa che ovviamente Fedez sa fare benissimo, ma non credo proprio sia questo. L’angoscia della morte ce l’abbiamo tutti e lui ha deciso di sublimarla così” ha detto su Repubblica lo psichiatra Federico Tonini. Ha ribattuto Selvaggia Lucarelli: “Registrarsi e postare la propria seduta di psicoterapia non è normalizzare la psicoterapia. Bisogna smettere di utilizzare il verbo ‘normalizzare’ per camuffare le più svariate forme di narcisismo/esibizionismo/incapacità patologica di conservare una sfera privata”.
Comunicare a tutti di aver paura (le sedute fanno riferimento a quando l’artista/influencer aveva saputo di avere un tumore; nelle registrazioni lo si sente piangere, accusare la paura di perdere non solo la sua giovane vita, ma la famiglia, i figli soprattutto): ha fatto davvero bene Fedez? E soprattuto, fa davvero bene a chi vive situazioni analoghe sentire le sue parole?
O invece non si tratta di condivisione, e non aiuterà mai in nessun modo altri nelle sue condizioni, perché è pornografia del dolore ad uso e consumo di chi l’ha postato, come sempre è la lamentazione reiterata di una propria condizione di sofferenza su un social?
Da quando l’outing di qualsivoglia specie è diventato di moda (“non siamo più repressi”) ognuno si sente libero di vomitare qualsiasi cosa sui social e non solo. Un delirio narcisista. Il setting terapeutico va protetto e tutelato. È uno spazio intimo, privato. È così che ci si cura, ed è questo, crediamo, sia il messaggio che dovrebbe passare.
Fonte: Paolo VITES | IlSussidiario.net