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Silvia Avallone. Nelle vite degli altri

«Noi non siamo dei risultati: siamo i nostri desideri». La guerra e la pandemia. La fragilità riscoperta e il lavoro dell’amicizia. E poi il male, il perdono… Su “Tracce” di maggio, un dialogo con la scrittrice

«Guarda, in fondo penso che scrivere serva proprio a questo: a immedesimarci, ad accorciare le distanze. Viviamo in una società in cui tutta questa presa dell’immagine, dei social e via dicendo, ci ha fatto dimenticare l’ascolto delle storie altrui. E invece abbiamo un grande bisogno di entrare nelle vite degli altri, e di specchiarci». Silvia Avallone, 38 anni, biellese di nascita e bolognese di adozione, è autrice di bestseller già dall’esordio (Acciaio, nel 2010, vinse il Campiello Opera Prima e sfiorò lo Strega). L’ultimo romanzo, Un’amicizia, è di due anni fa. Il prossimo è in cantiere. Ma intanto la si può leggere sul Corriere della Sera, con cui collabora. È lì che, qualche settimana fa, ha scritto un articolo sull’Ucraina, la guerra e quelle migliaia di donne che vediamo fuggire dall’orrore e bussare alle nostre porte: «Vestono i miei stessi panni. Mi ci immedesimo mentre corrono con i figli in braccio, cercano di salire su un treno gremito alla disperata, di calmare un bambino, di sistemargli il giubbotto perché fa freddo… Sono gli stessi gesti che compirei io. Che potrei compiere».
Ecco, mettersi nei panni degli altri, per capire. E per rendersi conto di come tante cose che diamo per scontate non lo siano affatto. Reclamano di essere custodite, curate. Amate. Ce ne siamo accorti di colpo con il Covid, ora lo grida la guerra. «La pandemia ci ha cambiato abbastanza. È vero, non siamo magicamente migliorati. Però abbiamo sperimentato sulla nostra pelle un senso di fragilità molto forte. Abbiamo visto morte e malattia da vicino. E questo ci ha preparati almeno in parte all’irruzione della precarietà totale della vita che stiamo osservando ora, a questo scempio dell’umanità… È qui, sta capitando a un passo da noi e quindi a noi. E ci richiama la tragedia delle altre guerre che in sottofondo ci hanno sempre accompagnato».

Cosa ci dice questa riscoperta così imponente della nostra fragilità?
Jonathan Franzen ha scritto che «la vita non serve a vincere». Ha ragione. Eravamo tutti impegnati in una competizione costante, in una performance continua di noi stessi. Dovevamo sembrare vincenti, accumulare, conquistare. Be’, gli ultimi anni ci stanno dicendo che la vita serve a tutt’altro. Siamo qui, ce l’abbiamo tra le mani. E dobbiamo prendercene cura a partire proprio da questa radice di fragilità. Siamo tutti esposti alla perdita: è una parte strutturale di noi, di cui non ci dobbiamo vergognare. Ma a partire da questa precarietà dobbiamo riconoscere i significati più importanti. E la solidarietà, il prendersi cura degli altri anziché averne paura o provare indifferenza, può farci riscrivere i nostri paradigmi. È un modo di sentirsi io nel noi. L’ io è una parola che senza il noi muore.

Qual è l’immagine che ti ha colpito di più di queste settimane?
I bambini. Mi straziano. Ho visto, ho voluto vedere le immagini, anche le più forti. Ne ricordo una, di una bimba che avrà avuto poco più di mia figlia, arrivata in barella già con i colori della morte. Mi tornano in mente le parole di Dostoevskij, ne I fratelli Karamazov: come si può giustificare il dolore, lo strazio, la morte anche di una sola bambina? È come se distruggesse tutta l’architettura umana, o divina per chi crede. È l’uccisione di tutti i significati. Di fronte a un’immagine del genere siamo rasi al suolo. Non è accettabile.

E tu come reagisci davanti a un’ingiustizia così e all’impotenza che ci fa provare? Ci facciamo tutti la domanda: ma io cosa posso fare?…
A volte, ho reazioni molto pratiche: una donazione, un aiuto concreto. E una volontà di informazione: non bulimica, ma prendendosi tempo per approfondire con calma, in silenzio. A me interessano molto le testimonianze, le vite. Le analisi politiche le seguo fino a un certo punto: la guerra uccide le persone. E poi, rivedo mia figlia in quei bambini. Quindi tendo a ringraziare per quello che ho e a prendermene cura con una consapevolezza molto più forte.

Tu hai una figlia di sei anni, Nilde. Come si parla della guerra ai bambini?
È molto difficile. Io cerco di usare soprattutto le parole, di cui ho più fiducia rispetto alle immagini. Faccio in modo che lei non sia esposta al “vedere”, ma il racconto di quello che succede sto cercando di portarlo avanti. Voglio che anche lei si renda conto di essere cittadina non della sua casa, ma di una comunità molto più vasta.

Ma ti ha chiesto «perché sta succedendo»?
Sì. Ed è una domanda enormemente difficile. Perché bisogna accettare che il male operi. E questo per me provoca uno scacco, profondissimo. Io parto dal presupposto che in qualche modo tutti noi siamo delle storie, e che nella caduta, nell’errore, ci sia sempre una possibilità di rinascita. Anzi, penso che l’umanità, in fondo, sia proprio questa occasione di rinascita. Ma di fronte a un male così devastante, viene il dubbio che non sia possibile. Tu come fai a rinascere? Ad accettare – a perdonare – che una cosa del genere sia accaduta? È qualcosa che mi interroga a fondo proprio sulla radice umana.

Una ferita aperta…
Vero. A mia figlia cerco sempre di dire che dobbiamo scegliere: possiamo essere nel mondo per avere, calpestare e conquistare tutto. E questo significa toglierlo agli altri. Oppure abbiamo la possibilità, anziché di togliere, di mettere: di voler creare qualcosa, per se stessi e per gli altri. È una logica diversa, ma sta a noi decidere. Questa scelta ci responsabilizza.

In quell’articolo parlavi della «logica della nascita, del mettere al mondo». Perché è così decisiva?
Pensa a quello che vediamo ora: una bomba arriva e fa tabula rasa dove prima c’era stata una lenta immaginazione di come costruire una casa, una piazza, una scuola… Lì c’era un progetto, un desiderio creativo. Mentre da questa parte c’è la legge dell’“io sono più forte”. “Mettere al mondo” è un’espressione femminile, chiaro: richiama la generazione di un figlio. Ma è una logica che io voglio separare da questo atto, perché è più ampia. Non appartiene solo alle madri, ma a chiunque decida di avviare un progetto, di qualsiasi tipo. E quindi anche agli uomini che vogliono scegliere di creare, di mettere in circolo qualcosa che poi resti nella comunità. L’io che rimane solo a dettare legge, è un io morto: è il contrario della logica della vita.

C’è un tema presente in tutti i tuoi romanzi: l’amicizia. Per te che cosa è?
È la relazione in cui sei libero di diventare te stesso. Non c’è un altro rapporto che ti insegni così tanto la libertà. L’amico è quella persona diversa da te in cui ti specchi e, attraverso ciò che lui ha e tu no, riesci a capire chi potresti essere, andando al di là di come sei stato educato dalla tua famiglia, dalle aspettative del tuo mondo. L’amico arriva sempre da un altrove, e questo già fa scattare un piccolo inizio di liberazione. E poi è la persona con cui puoi essere completamente sincero e che puoi accogliere con la stessa assenza di giudizio. L’amicizia è un lavoro difficile: serve molta forza per coltivarla per tutte le stagioni di una vita. Ma un amico vero diventa il più grande testimone della tua anima.

Parli molto anche di mancanza, di perdita. In un’intervista, hai detto che «è un serbatoio enorme di desiderio: si desidera perché bisogna riempire un vuoto». Che cosa ci dice questo bisogno?
È ciò di cui ci hanno sempre insegnato a vergognarci. Nella società ipermaterialista in cui sono cresciuta non si parla di malattie, di morte, di fallimenti. È qualcosa di brutto, e va nascosto. Perché è indice del fatto che sei fragile; non sei un vincente. Eppure, grazie alla letteratura – che in realtà è piena di questo: parla quasi solo di perdite e di reazioni a queste mancanze –, io mi sono fatta un’idea molto diversa. Attraverso i grandi vuoti, noi cambiamo. Abbiamo l’occasione di dare una risposta creativa. Non è mai facile rispondere a un dolore: dobbiamo accettare che ci voglia tempo e fatica. E sono modalità bandite nel mondo del “tutto e subito”. Ma in questo percorso di cambiamento, io ci vedo proprio il movimento della vita.

L’altra faccia di questa fragilità è il perdono. Ne parli spesso. Perché?
È una delle cose più difficili. Anzitutto, è dura perdonare noi stessi per gli errori che abbiamo compiuto, per i problemi che non abbiamo risolto. Però è la premessa per essere sinceri con se stessi e quindi per vivere davvero la propria vita senza fuggire, senza mascherare. Ed è anche la premessa per accogliere chi abbiamo vicino: per perdonare i nostri genitori di essere persone normali e non gli eroi che avremmo voluto, per accettare il nostro compagno e stare con lui anche se a volte ci delude… Dare la possibilità agli altri di deluderci, di cadere. Questo significa sempre, di rimando, darla a noi stessi. Io sono molto spaventata da un mondo che ci vuole tutti incatenati in definizioni. Nessuna vita umana è mai fallimentare o vincente. Non solo perché possiamo sempre cambiare, ma perché noi non siamo dei risultati: siamo i nostri desideri. E questi desideri viaggiano, e nascono anche dalle fragilità.

Nei tuoi romanzi questo bisogno è molto potente: penso alle coppie di amiche di Acciaio, o di Un’amicizia…
È una delle radici dei miei libri. Quello che desidero sempre è riconoscere all’altro, come a me stessa, la possibilità di cambiare. Forse è qualcosa che mi viene dalla letteratura. Mentre leggevo Delitto e castigo, desideravo che Raskol’nikov venisse preso per il suo bene: non pensavo che dovesse pagarla, ma volevo che potesse capire ciò che aveva fatto, e quindi iniziare un percorso di rinascita. Questo per me è essenziale. Un lettore, una volta, mi ha detto che io non ho mai raccontato il male. Da un certo punto di vista è vero: non mi sono mai fermata lì. Ogni male che ho raccontato prevedeva sempre un “dopo”. Qualcuno che ti avrebbe guardato in faccia e ti avrebbe detto: «Va bene: nonostante tutto quello che è successo, nonostante quello che hai fatto, adesso proviamo a rinascere…».

Da dove nasce questo sguardo? La letteratura può rafforzarlo, dargli strumenti, ma non è l’origine…
Forse sono stata fortunata nelle relazioni. Nell’affetto. Anche nella sincerità che ho sempre visto nelle persone che mi circondavano. A partire dai miei genitori, che si sono separati ma sono rimasti amici: ci sono sempre stati, per me. Non erano due genitori separati, erano due genitori. Ogni volta che mi sono sentita dire «la figlia di genitori separati», ho sempre pensato: «Questo termine non mi sta bene, non sta bene alla mia esperienza. Che è molto più ampia. Le persone sono più ampie». E poi penso a tante storie vissute, di amicizia o di amore…

Quel pezzo del Corriere lo chiudevi con una citazione di Dostoevskij: «La vita è un paradiso, e noi tutti siamo in paradiso, ma non vogliamo capirlo». Cosa serve per accorgersene?
Questa è una domanda difficile… Io in fondo so cosa ha fatto sì che avessi una certa sensibilità: nasce anche grazie all’educazione che ho ricevuto. Ci sono sempre dei maestri o maestre, piccoli o grandi, che ti dicono qual è la strada. Poi ognuno questa strada la declina per sé, però ci deve essere un passaggio di consegne, qualcuno che ti dice per cosa vale la pena lottare. Secondo me, dobbiamo avere di nuovo tanto coraggio di educare. Con la cultura, la lettura, l’arte, i film… Dare le parole giuste, i nomi giusti, i battesimi giusti alla realtà. Perché la realtà ci chiama in causa.

Fonte: Davide PERILLO | Clonline.org

 

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