Quando uno arriva sul ciglio di un esame come quello di maturità non può che andare avanti e di fatto non ha molte scelte davanti a sé
Quando uno arriva sul ciglio di un esame come quello di maturità non può che andare avanti: sa che il suo futuro passa per quelle scale, quei saluti così familiari eppure irrituali, quelle carte di identità controllate mille volte, quei banchi così disposti solennemente da trasmettere tutta l’imponenza di essere candidati. Quando uno arriva sul ciglio di un esame come quello di maturità ha il cuore gonfio di nostalgia perché sa che quelle cose che fa, quelle cose cui diligentemente adempie, sono le ultime cose, gli ultimi atti, di un viaggio partito tanto tempo prima, nel ventre materno.
Bistrattata, inutilmente riformata, molte volte obsoleta, la maturità è ancora oggi la fine dell’infanzia, la fine di quel tratto di esistenza in cui ci si prepara a partire, ad andare, a prendere il largo. È per questo che quell’esame diventa un grande saluto, un lacerante addio non solo ad una scuola, ai compagni o ai docenti, ma a una parte di sé. Il fatto strano è che tutto ciò accada nelle prossimità del solstizio d’estate, quel tempo in cui “il sole – secondo gli antichi – sta”, dando luogo alle giornate più lunghe dell’anno. Gli ultimi splendori di luce arrivano a lambire le dieci di sera, ridestando nell’animo umano quell’energia e quella forza che in fondo illude che il peggio è alle spalle, che l’estate comincia e tutto diventa possibile. Non è affatto così. In pochi giorni quello splendore inizia a ritirarsi, la luce comincia a lasciare spazio alle tenebre e – in poco più di un mese – le giornate sono già più corte di un’ora. Al culmine della luce inizia così, non notato da nessuno, un altro cammino, un’altra strada.
Mentre l’uomo festeggia la bella stagione, il Cielo prepara già l’inverno. C’è quindi un’assonanza tra quel solstizio e l’esame di maturità: un’altra stagione si prepara e i più sensibili tra gli studenti la pre-sentono, la intuiscono, e comprendono che quello di questi giorni è un tempo di festa e di congedo. E non basterà lo spumante stappato alla fine degli orali, non basterà la vacanza in cui perdersi dopo gli affanni sulle sudate carte, non basteranno gli amori, gli amici, le piccole e grandi idee di tutti i giorni. Niente può strappare all’uomo quel senso del tempo, delle cose e di sé che incombe e che annuncia un tempo nuovo, un tempo in cui occorre lasciare per poter trovare ancora.
Dopo tutto è questo che i ragazzi hanno studiato nella letteratura dell’ultimo anno: uomini alle prese con la ferita della vita, una ferita che si specchia nella natura, nelle cose, nel popolo, negli affetti. Una ferita che rischia di lasciarci come “personaggi in cerca d’autore”, una ferita che mozza le nostre parole, indicibile ai più. È la ferita della storia travagliata del Novecento, con i suoi orrori e le sue passioni, è la ferita della filosofia che cerca nel conflitto o nell’ordine il suo paradigma di riferimento per poi abbandonarsi al nulla, all’emozione del presente. Questa ferita è ciò che ci rende intelligenti, è ciò che ci spinge a dire che una funzione esiste solo a certe condizioni perché l’esistenza – nel razionalismo – ha bisogno di parametri. Ma è anche quella che, al passo con le scoperte della fisica, ci mostra che i nostri parametri sono solo sicurezze che ci fanno comodo, che funzionano nel nostro sistema. Perché la vita non la puoi addomesticare, la terra non la puoi tenere a bada. Non si tengono a bada i vulcani, i terremoti, i campi magnetici. La vita va ascoltata come si ascolta una roccia, va esaminata come i dati di un problema, va sorpresa come Joyce si sorprende della realtà che, d’un tratto, si svela.
Montale cadeva commosso quando un mattino, senza più fiducia in nulla, si era ritrovato travolto dal giallo dei limoni. Ciò che lo commuoveva era che le cose, nonostante tutto e ogni teoria su tutto, c’erano, esistevano. Quando uno arriva sul ciglio di un esame come quello di maturità non ha molte scelte davanti a sé: può rimpiangere il tempo che non c’è più, può fregarsene portando a casa il risultato migliore possibile. Oppure può stupirsi di quello che c’è. Di quella strana misericordia che ci rivela che, quando tutto finisce, in realtà è lì che tutto misteriosamente comincia. È questo il segreto taciuto da tutti, è questa la promessa che, in fondo, tutti vorrebbero sentirsi fare ogni mattina. All’alba di una nuova stagione.
Fonte: Federico Pichetto | IlSussidiario.net