La battaglia in difesa del corpo e i limiti dell’autocertificazione di genere. Come conciliare diritti acquisiti con fatica e nuove identità
Che cos’è una donna? È quella che ci ha messi al mondo, tutte e tutti. Su questo non può esserci alcun dubbio. Il che non significa affatto che una è donna solo se mette al mondo dei figli. Abbiamo molto lottato per la libera significazione delle nostre esistenze, a cominciare dal non-obbligo di maternità (anche se oggi, come stiamo vedendo, siamo passate a tutti gli effetti al quasi obbligo di non-maternità). Ma per dire che cos’è una donna il potere -non il dovere- essere madre è la costante di tutte le costanti. È intorno alla sua capacità di procreare -invidiata, controllata, dominata, messa a servizio- che si è storicamente costruito l’immane edificio patriarcale.
E le donne trans? Sono, appunto, donne trans, come ha spiegato la scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie, che pure avendo lottato al fianco delle persone trans nel suo paese per questa limpida risposta è stata -al solito- accusata di essere una Terf (trans-escludente).
Del resto anche numerose persone trans vengono accusate di terfismo, da Debbie Hayton a Keira Bell a Scott Newgent, nell’occhio del ciclone perché si battono contro la somministrazione di ormoni a bambine e bambini gender nonconforming(prima puberty blocker e poi farmaci cross-sex: si fa anche in Italia) aumentata in modo vertiginoso negli ultimi anni, si veda la recentissima e preoccupatissima inchiesta del New York Times;e sono contrarie al cosiddetto self-id o autocertificazione di genere.
Anche noi in Italia abbiamo sostenuto e supportato le persone trans –all’epoca quasi esclusivamente MtF, nate maschi e transitate al femminile- nella loro dura battaglia dei primi anni ’80 per la rettificazione dei documenti, battaglia conclusa con l’approvazione della legge 164/82. La legge prevede un percorso medico e psicologico per ottenere il cambiamento anagrafico ed effettivamente è un po’ invecchiata. Una legge analoga, il Gender Recognition Act in UK, è stata infatti recentemente aggiornata per velocizzare le pratiche e diminuire i costi. Ma gli inglesi hanno detto no al self-id.
Da allora, dai primi anni 80 a oggi, che cos’è successo? Lo spiega bene il professor Robert Wintemute, attivista gay, docente esperto in diritti umani al King’s College di Londra che nel 2006 partecipò alla stesura dei famosi principi di Yogyakarta, principi che hanno orientato tutte le successive politiche trans (e che non menzionano una sola volta la parola donna). Oggi Wintemute è pentito di aver contribuito alla stesura. Dice che i diritti delle donne non sono stati considerati durante la riunione. Soprattutto ammette di «non aver considerato» che «donne trans ancora in possesso dei loro genitali maschili intatti avrebbero cercato di accedere a spazi per sole donne: nessuno allora aveva in mente una cosa del genere». Wintemute dice di aver dato per scontato che la maggior parte delle donne trans si sarebbe sottoposta a chirurgia, come in effetti avveniva in quel tempo. E conclude: «Un fattore chiave nel mio cambiamento di opinione è stato ascoltare le donne».
Vogliamo che chi soffre di disforia di genere strazi il proprio corpo con chirurgia e ormoni per adeguarlo cosmeticamente al sesso d’elezione? Noi i corpi li facciamo, e non ci piace che vengano distrutti. Ma va considerata questa novità -il pretendere di dirsi donne da parte di uomini che mantengono intatti i loro corpi maschili- e ne vanno attentamente valutate le conseguenze.
Il self-id è già in vigore in alcuni paesi, come Canada, California e altri. Questo crea molti problemi alla vita delle donne. Due esempi possono dare l’idea.
L’affermazione del diritto di essere accolti nelle case rifugio antiviolenza mette a repentaglio la sicurezza femminile. Lo dice bene la scrittrice pakistana Bina Shah, collaboratrice del New York Times: nessuna donna musulmana accetterà di condividere spazi così intimi con uomini, piuttosto rischierà di morire per mano del marito violento. Vuole dire che è “escludente”?
Un altro esempio: detenuti con corpi maschili intatti che ottengono di essere trasferiti nei reparti femminili. Strazianti le lettere delle detenute canadesi, californiane, dello stato di Washington: «Il mio nome è Danielle F., sono detenuta nel CIW (California Institution for Women). Ho paura di questa cosa. Sono una vittima di violenza domestica e stupro. Che succederà se uno di questi sex offender che hanno il pene ci violenta?».
«Il mio nome è Heather Knauff, WF 7697. Permettere questo è oltraggioso e non etico. Ci sono già uomini che sono diventati donne che sono tornate a essere uomini per sfruttare questo sistema debole che abbandona la popolazione delle donne già svantaggiate a soffrire ancora di più». Molti di questi detenuti che si dicono donne non sono nemmeno in terapia ormonale.
I casi di molestie e violenze sessuali si moltiplicano, anche le guardie carcerarie danno l’allarme: “escludenti” pure loro? Nel frattempo vengono distribuiti preservativi gratuiti e una guida su come ottenere un aborto in prigione. Secondo Amie Ichikawa, attivista per i diritti delle donne detenute, è come se la legge avesse «dato l’ok perché ci violentassero, visto che ha un piano per occuparsi delle conseguenze». Si sono già verificati peraltro casi di gravidanze, come nel carcere femminile Edna Mahan, New Jersey, che ne ha dato notizia.
Il self-id è questo e molto altro. Sono i grotteschi ori a Lia Thomas, Valentina Petrillo e altri atleti nati uomini che sbaragliano ogni primato femminile senza che lo strabordante chiacchiericcio dei media sportivi abbia mai il coraggio di affrontare la questione (l’organizzazione femminista che se ne occupa è Save Women’s Sport). Sono i corpi maschili che invadono le statistiche femminili, usufruiscono di quote lavorative e politiche riservate, si fanno largo tra le donne perché, come affermato anche recentemente da The Queen of GenderJudith Butler su The Guardian, «la categoria donne deve aprirsi per fare spazio ad altri soggetti».
“Fare spazio ad altri soggetti” è una formula che descrive bene il destino femminile nel patriarcato: un fare spazio che oggi si spinge fino al paradosso che per una donna dirsi donna è diventato un atto aggressivo ed escludente, mentre per chiunque non sia nato donna è affermato come un diritto.
Sul perché stia capitando questo ci sarebbe moltissimo da dire, e ci sarebbero anche tante altre cose da raccontare, qui non c’è spazio. Va tuttavia osservato che di tutto questo Michela Marzano nel suo testo a sostegno delle “donne con il pene” non ha fatto il minimo cenno: le importa così poco delle sue simili? E come mai?
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