Siamo nel pieno dell’esame di maturità, nella forma sempre diversa che il Ministero dell’Ostruzione con inventiva degna di miglior causa sa escogitare ogni anno. Quest’anno è stato battuto ogni record: le modalità dell’esame che chiude 13 anni di percorso nella scuola sono state dichiarate a marzo. È un rito da difendere ancora? In un discorso del 1922 il grande filosofo francese Henri Bergson, al quale era stata affidata la strutturazione dei percorsi scolastici, centrava il punto: «La domanda essenziale, in materia di educazione, è proprio quella che ci si dimentica di porsi la maggior parte delle volte prima di tracciare un programma: qual è il nostro scopo? Che cosa vogliamo ottenere? Che tipo di uomo intendiamo formare?».
In fondo il verbo maturare rimanda a un processo e se c’è un esame «di maturità» è proprio per «misurare» questo processo. Infatti la radice della parola indica il «giungere a compimento», «al tempo giusto», né acerbi né marci (le due possibili forme di «immaturità»), come frutti pronti per nutrire il mondo. Ma come si fa a capire quando si è arrivati a compimento nel periodo di formazione? Compimento di cosa? Basta quantificare il processo attraverso i risultati di alcune prove? Di chi possiamo dire: è maturo? Ha senso quantificare questo processo? Si dà in natura qualcosa del genere? O è solo l’ossessione di una cultura che confonde l’apprendimento con la sua quantificazione in base a standard?
Bergson in quello stesso discorso rispondeva con una sintesi limpida ma oggi forse non più comprensibile: «Vogliamo formare un uomo dallo spirito aperto, capace di svilupparsi in più di una direzione. Vogliamo che abbia imparato ad apprendere» (citato in M.T.Russo, Henri Bergson educatore). Già Socrate e Agostino avevano ben chiaro che educare è «aiutare a generare» e «svegliare il maestro interiore», cioè mettere l’allievo in condizione di apprendere da solo, renderlo capace di procurarsi autonomamente ciò che serve al suo pieno sviluppo. Oggi invece si è ridotto l’educare all’in-struire, metter dentro uno spazio vuoto nozioni necessarie ad affrontare delle prove: teste da addestrare a test e non da rendere autonome. Si danno a tutti gli stessi mattoncini per realizzare un progetto stabilito a priori, invece di capire che progetto ciascuno può e vuole realizzare, per poi aiutarlo a procurarsi i mattoncini più adatti per riuscirci. Bergson parla infatti di un uomo dallo «spirito aperto», «capace di svilupparsi in più di una direzione». Che significa? Che viene prima l’uomo dell’esame, l’unicità prevale sullo standard. Maturo è chi sa stare di fronte alla realtà, misurandola e misurandosi con la massima apertura senza soccombere o fuggire, ma trovando soluzioni personali.
Svilupparsi in più di una direzione significa infatti crescere come una pianta verso la luce, ramificandosi al pari di quanto amplia le radici e dando così i propri frutti. In questi anni ho visto i ragazzi affrontare l’esame pieni di ansia perché non sono stati allenati a stare di fronte alla realtà ma di fronte ai programmi. Capita infatti che dopo l’esame, magari ben superato, non sappiano se iscriversi all’università o quale facoltà scegliere: per mancanza di conoscenza di sé (spirito chiuso) aspettano che qualcuno dica loro cosa fare, attendono appunto «istruzioni», come sono stati abituati dall’istruzione. Di recente un maturando si è sentito consigliare di non parlare di politica per non indispettire il presidente di commissione e ha scritto, in una lettera al giornale locale, che la scuola gli ha insegnato a non pensare con la sua testa ma a compiacere gli esaminatori.
In un bellissimo libro intitolato Il pianoforte segreto, la pianista cinese Zhu Xiao-Mei racconta la sua vicenda autobiografica. Iscritta al conservatorio di Pechino viene investita dalla rivoluzione di Mao, durante la quale è vietato suonare i pezzi dei compositori occidentali, e così la ragazzina, costretta a una radicale rieducazione, è mandata in quattro campi di lavoro, fino a quando riesce ad andare via dalla Cina. Diventerà insegnante al conservatorio di Parigi e una delle migliori interpreti al mondo delle difficilissime variazioni Goldberg di Bach. Ancora undicenne, prima della rivoluzione maoista, deve affrontare un esame fondamentale ma si scoraggia paragonandosi agli altri ragazzi più dotati di lei: «Ho le mani troppo piccole e ho paura di non accedere al secondo anno. E poi ho sempre male ai polsi. Suonare è una sofferenza». Gli esaminatori vogliono respingerla tranne uno: «Cari colleghi, scusatemi, ma non sono d’accordo con voi. Trovo che la ragazza suoni molto bene e che soprattutto trasmetta qualcosa al di là delle note. Parliamone». Grazie a quell’intervento la ragazza supera l’esame e, nel primo giorno di lezione, quel maestro (Pan) le dice: «“Sai, Zhu Xiao-Mei, ogni cosa ha due lati: uno positivo e uno negativo. Certo, hai le mani piccole e questo non ti faciliterà la vita in alcuni brani. Ma le mani piccole sono più veloci. Farai meraviglie con alcuni repertori. Vedrai, il negativo si dimostrerà positivo, come il positivo, a sua volta, può dimostrarsi negativo. Ho conosciuto un sacco di allievi che, poiché avevano mani grandi, non si sforzavano di lavorare. Una sfortuna, per loro”. Maestro Pan si rende conto di avermi appena aperto un mondo? Mi ha dimostrato che una debolezza può rivelarsi un vantaggio, mi ha fatto riacquistare un po’ di fiducia, e questo è fondamentale». Ecco il segreto delle meravigliose esecuzioni di Bach.
Trovo che questo episodio sintetizzi quanto cerco di dire: il maestro «apre un mondo» all’allieva, la mette di fronte alla realtà senza sconti o finzioni, trasformando un apparente limite in vantaggio, fiducia e occasione da non perdere. La maturità è la misura di questa «apertura» dello spirito che sa stare di fronte alla realtà con fiducia senza manipolarla o fuggire. Bergson nei suoi saggi parlerà infatti di «energia spirituale», riferendosi alla capacità di proiettarsi in modo sempre creativo in un futuro che rimane, così, sempre aperto: l’energia dello spirito è la forza che ha la coscienza di «trarre da sé più di quanto non abbia» (e-ducare significa trarre fuori, ma non qualcosa che già c’è bella e fatta ma qualcosa che ci può essere e ci sarà solo come conseguenza di una scelta). Solo così le dita piccole possono diventare futuro aperto, perché saranno, se la ragazza le «sceglierà», l’occasione per una maggiore maestria. Avrebbe avuto tutti gli alibi (dalle dita piccole a una dittatura che le sequestrò il pianoforte) per lasciar perdere, ma lo spirito, «aperto» dal maestro, divenne pronto ad affrontare qualsiasi cosa e a svilupparsi.
Per questo va ripensato il percorso che porta all’esame di maturità. Trovo assurdo che gli insegnanti delle tre tappe del nostro sistema (primaria, media e superiori) non «si parlino» nei passaggi di consegna di un ragazzo o di una ragazza: che storia ha? In che direzione va il suo talento? Quali i suoi limiti e i suoi punti forti? «Dita piccole e capacità di dire qualcosa oltre le note» era il giudizio del maestro Pan su una ragazzina undicenne. Solo così si potrà arrivare a un altro tipo di esame, che alleni l’energia spirituale a creare e non semplicemente a ripetere. Tra l’altro adesso l’esame non serve più neanche per il futuro, perché nelle facoltà si accede affrontando test che o avvengono prima dell’esame o per i quali il voto finale è ininfluente. Se vogliamo tornare a dare un senso a questo rito di passaggio, uno dei pochi rimasti nella confusione delle età che porta ad avere infanzie adolescentizzate troppo presto e adolescenze infantilizzate troppo a lungo, dobbiamo renderlo funzionale al vero e proprio «compimento» (maturazione) personale. Quindi o lo eliminiamo, accontentandoci di una media ponderata dei voti degli ultimi tre anni, ma non credo sia la soluzione migliore, o lo riformiamo a partire da un obiettivo diverso, realmente rispondente alla parola «maturità», che può emergere solo dal singolo studente. Questo richiede un’idea chiara su quale sia lo scopo dell’educazione: non addestramento a smaltire programmi e prove, ma compimento dell’umano nella sua unicità grazie a quei programmi (continuiamo a ignorare che le intelligenze sono multiple e non possono essere ridotte a un unico modello misurabile con il QI, come mostrano da tempo i libri di Howard Gardner). Per questo amo dire ai maturandi le parole pronunciate tre secoli prima di Bergson da un personaggio shakespeariano: «Quando l’anima è pronta, allora le cose sono pronte». E non viceversa.
Fonte: Corriere.it