La Corte suprema non ha restaurato il diritto alla vita, ma ha abbandonato l’aborto al dibattito politico
Annullando la sentenza Roe vs Wade sull’aborto del 1973 la Corte Suprema degli Stati Uniti il 24 giugno ha preso una decisione dall’enorme significato storico, che costituisce la prima vera inversione di tendenza, a livello giuridico e per i suoi inevitabili effetti politici, rispetto al processo di legittimazione, legalizzazione e assimilazione psicologica della pratica abortiva che da mezzo secolo ha contribuito in misura rilevante a cambiare il volto delle società occidentali.
Nel corso di quel processo in esse si è consolidata, cementata la totale subordinazione della maternità, della paternità, della famiglia e della protezione della vita nascente a beneficio dell’unico, incontrastato principio della volontà individuale di un soggetto adulto in posizione di forza, affermando una visione della vita integralmente relativistica, che oggi viene quanto meno posta decisamente in discussione.
Tuttavia, la sentenza del 24 giugno non si può considerare l’inizio di una strada radicalmente diversa per il diritto e la politica statunitensi e occidentali, nel segno di un abbandono di un approccio relativistico e di un ritorno alla salvaguardia del diritto alla vita in ogni sua fase, a cominciare da quella prenatale.
Infatti, i giudici attuali della Corte hanno confutato l’idea, alla base della Roe vs Wade, secondo cui il diritto di una donna di decidere il destino del nascituro ospitato nel proprio grembo potrebbe essere assimilato, entro certi limiti, a un diritto costituzionale, in quanto fondato su un “diritto alla privacy” che, sebbene non enunciato negli Emendamenti alla Costituzione federale, si dovrebbe considerare implicito, dunque coperto dal 9° Emendamento (i diritti enunciati non ne escludono di ulteriori). Da tale interpretazione la Corte nel 1973 derivava la conclusione che, seguendo il 14° Emendamento (le leggi degli Stati non possono negare i diritti personali stabiliti a livello federale), gli Stati non potevano legiferare in modo da comprimere le decisioni personali delle donne in merito alla loro gravidanza. E’ vero che nella sentenza del 1973 la Corte aggiungeva che la libertà di abortire doveva essere sempre contemperata dall’interesse generale alla difesa della vita, e invocava una regolamentazione che limitasse l’aborto legale alla fase iniziale della gravidanza. Ma nei fatti, per la costitutiva discrezionalità della distinzione tra fasi diverse della vita prenatale, quell’appello alla privacy aprì la strada a legislazioni di Stato sempre più permissive, e al contempo espose strutturalmente ogni normazione più restrittiva ai ricorsi alla Corte stessa da parte dei sostenitori dell’aborto.
Ora, la Corte nella decisione sul caso Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization difende, appunto, una legge di Stato (in questo caso del Mississippi) che consente l’interruzione di gravidanza entro le prime 15 settimane (comunque più dei 90 giorni consentiti dalla legge 194 in Italia) da un ricorso in senso permissivo, affermando che il diritto alla privacy è una base insufficiente a innalzare la libertà di sopprimere un bambino non nato a diritto costituzionale fondamentale. La questione dell’aborto, opina la Corte, è dolorosa e divisiva per la società, su di essa esistono opinioni profondamente divergenti, e quindi essa deve essere lasciata alla procedura democratica, consentendo a ciascuno Stato, nello spirito del sistema federale statunitense, la facoltà di decidere le norme in merito. Conseguentemente, sono compatibili con la Costituzione legislazioni anche molto diverse, dal divieto alla facoltà limitata o estesa di abortire. E verosimilmente gli Stati Uniti saranno, da ora in poi, una mappa dai colori fortemente diversi a seconda che le amministrazioni dei singoli Stati siano repubblicane o democratiche, visto che la posizione in merito all’aborto è uno dei dati che maggiormente caratterizzano l’identità politico-partitica di destra e sinistra.
Insomma, la Corte oggi non contesta la valenza costituzionale del diritto di abortire in nome di un diritto prevalente, cioè quello alla vita, ma semplicemente lascia la questione alle decisioni di questa o quella maggioranza, perché si tratta di un tema, ad avviso dei togati, strutturalmente soggetto a interpretazioni diverse.
Certo, tale decisione si fonda su un dato oggettivo della Carta statunitense: se il diritto all’aborto non è desumibile dal testo costituzionale, nemmeno la proibizione di esso è mai esplicitamente menzionata dagli Emendamenti, benché fino al secondo Novecento nella cultura diffusa la soppressione di un bambino non nato è sempre stata considerata un atto intrinsecamente cattivo, prima ancora che proibito dalle leggi.
Tuttavia, se si risale alle radici del costituzionalismo americano, e di quello occidentale, si può constatare che il diritto alla vita – senza eccezioni, senza clausole – viene posto come il primo diritto naturale alla base della convivenza, sia nel Secondo Trattato sul governo civile di John Locke che, ancor più significativamente, nella Dichiarazione di indipendenza delle colonie del 1776. Può una Corte Suprema degli Stati Uniti, che hanno origine proprio in quella Dichiarazione e la citano come il fondamento di ogni loro istituzione, non considerare questo dato di fatto? Anche se nessun Emendamento cita il diritto alla vita in ogni stadio e condizione, esso potrebbe a buon diritto essere considerato implicitamente vigente molto più di quanto lo sia quello alla privacy. Ma nemmeno questa Corte, formata a maggioranza da giudici di orientamento conservatore e aspiranti alla custodia del senso originale della Costituzione, ha avuto il coraggio di spingersi fino a questo punto.
In ogni caso, lo stesso fatto di affermare l’ovvio, cioè che l’aborto non può essere un diritto fondamentale (come del resto anche in altri paesi liberaldemocratici, tra cui il nostro, dove non è mai menzionato come tale), ha scatenato le reazioni rabbiose e inconsulte della classe politica, dei media e della cultura “progressista” in America e nel resto dell’Occidente: le accuse di “ritorno al Medioevo”, di “odio per le donne”, e deliri simili. Questo perché l’ideologia relativista radicale egemone tra le élites occidentali, strutturalmente intenta a demolire ogni residuo di umanesimo in favore di aspirazione transumaniste all’onnipotenza, non può sopportare nemmeno che si possano ipoteticamente porre dei limiti alla manipolazione, alla mercificazione, all’umiliazione della vita e della persona umana in nome dei desideri illimitati di pochi privilegiati, e che si possa anche solo tentare di salvare, almeno in parte, la sacralità dell’essere umano.
Fonte: Eugenio CAPOZZI | LaNuovaBQ.it