Gli uomini della Terra vennero su Marte. Vennero perché avevano paura, o perché non l’avevano, perché felici, o infelici. Ognuno aveva le sue buone ragioni per venire su Marte. Cattive mogli da abbandonare, lavori ingrati, città inospiti. Venivano su Marte per trovare qualcosa, o lasciare qualcosa, o ottenere qualcosa, per scavare qualcosa, o seppellire qualcosa, o lasciare una volta per tutte in pace qualcosa. Venivano con piccoli sogni, o sogni immensi, o niente sogni del tutto».
Così comincia un racconto di Ray Bradbury contenuto nella raccolta Cronache marziane del 1954, in cui l’autore di Fahrehneit 451 immaginava Marte come una nuova Terra. Mi sembra il modo migliore di avviare quest’ultimo pezzo della rubrica prima della pausa estiva, perché anche noi arriviamo alle vacanze come i coloni descritti da Bradbury, carichi di aspettative.
Ma, come l’autore svela già dalle prime righe, Marte non è che un’illusione, perché ciascuno porta al mare o in montagna, al lago o in campagna, ciò che è. Non basta trovare scenari esotici, persino Marte, per andare «in vacanza». E allora, se non è primariamente nei luoghi, dov’è il segreto del riposo? Mi ha sempre colpito che, a differenza delle cosmogonie di altre religioni, in quella ebraica il riposo è parte della creazione. Dio lavora sei giorni ma il compimento della creazione è un giorno di riposo.
Il riposo non è qui lo spazio del far nulla ma quello del godere ciò che si è fatto, un «piacere relazionale»: con se stessi (Dio è felice di ciò che ha fatto e lo ha fatto per comunicare la sua felicità), con le cose (Dio gode della loro bellezza e libertà) e con le persone (Dio passeggia sul far della sera con l’uomo, suo figlio, in mezzo a questo «ben di Dio»).
Non ci può essere creazione senza riposo così come non ci può essere riposo senza creazione, ma questo si dà solo relazionalmente. Per questo non amo la contrapposizione moderna tra lavoro e tempo libero, perché implicitamente considera il primo una schiavitù: si lavora per conquistare la libertà.
Anche nel mondo antico il lavoro è rivestito prevalentemente da tratti pessimistici. Lavoro in greco si dice infatti ponos, fatica e peso, l’altra faccia necessaria di ergon, il lavoro come azione che trasforma le cose. Anche la nostra parola lavoro viene dal latino labor, che significa appunto peso e fatica. I latini infatti chiamano l’impegno di lavoro negotium, che è la semplice negazione (nec-) della parola otium (riposo operoso). In spagnolo il lavoro è trabajo, travail in francese, che è rimasto nel nostro travaglio (il parto).
L’uomo ha sempre aspirato a eliminare il lavoro o almeno la sua fatica. Nella tradizione biblica c’è qualcosa di diverso: in Dio creare e riposare sono due facce dello stesso agire. Infatti il verbo riposare in ebraico (da cui viene la parola shabbat, riposo, il nostro sabato), suona simile al termine che si usa per indicare la settimana: i giorni di lavoro trovano il loro senso nel giorno del riposo, in una circolarità che è anche linguistica.
Ne resta traccia in holiday, vacanza in inglese, termine antico, che si riferisce a un giorno (day) santo (holy) perché dedicato a una festa religiosa, e che nel corso della storia è passato a indicare semplicemente un periodo di vacanza. In holiday c’è l’eco del racconto della Genesi: «Dio, nel settimo giorno, portò a compimento il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro che aveva fatto. Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò, perché in esso aveva cessato da ogni lavoro che egli aveva fatto creando».
Holyday non è quindi tempo libero ma tempo consacrato. Ma a che cosa? Nella cultura ebraica questo racconto fonda il sabato, sostituito dalla domenica nella tradizione cristiana, giorno della resurrezione di Cristo. Il riposo raccontato in Genesi diventa nel Vangelo la resurrezione, cioè la vittoria sulla morte. La resurrezione di Cristo è il riposo di Dio (i cristiani non dicono forse eterno riposo per indicare la morte?). Insomma il lavoro è per il riposo e il riposo è per risorgere.
Ma come si fa? Noi siamo fatti di questo equilibrio tra creare e riposare: se non facciamo nulla precipitiamo nella disperazione del nonsenso, se lavoriamo soltanto finiamo nell’esaurimento. Fra disperazione ed esaurimento c’è la feconda via della ripetizione settimanale: creazione-riposo.
Come criterio di giudizio sugli uomini Cristo infatti usa una massima che amo: «Dai loro frutti li riconoscerete». Se attorno a una persona fiorisce una vita che nutre, allora c’è vera «azione», perché rispetta il tempo del lavoro e quello del riposo. Si dice infatti che i terreni «riposano» per recuperare le energie impegnate nel dare frutto, altrimenti il campo si esaurisce. Nella terra, di cui noi siamo fatti (Adamo vuol dire «fatto di terra»), è inscritto questo ritmo del creare che si compie nel riposo e del riposo che avvia un nuovo creare. Noi siamo, allo stesso modo della terra, chiamati a creare per riposare e a riposare per creare. Ma questo può accadere solo quando creatività e riposo sono orientate alla relazione: per amore e per amare.
Riposa lavorando, per quanto si stanchi, chi lavora per amore di ciò che fa e per amare le persone che ne traggono benefici. Io esco da una lezione stanco ma riposato, perché ho fatto quello che amo e l’ho fatto per e con persone che amo: l’energia non si disperde ma si rigenera, non c’è entropia ma ri-generazione. Così come mi capita di finire un capitolo a cui ho lavorato per ore con una stanchezza riposata, perché so che quelle parole sono state amate e che trasmetteranno quell’amore: non c’è esaurimento ma ri-creazione.
Solo quando il lavoro nasce e si sviluppa in modo relazionale (relazione d’amore con se stessi, le cose e le persone) può essere riposo, quando è invece vissuto individualisticamente, cioè solo come obbligo o autoaffermazione, inevitabilmente esaurisce: può dare qualche soddisfazione ma non libertà e riposo. Per questo penso alle vacanze come al compimento di un processo circolare simile a quello annuale dei campi, che si ripete infatti nel tempo umano ogni settimana (sei giorni di lavoro e uno di riposo).
Ma anche il riposo per essere vero riposo, e non prestazione (fare il più possibile) o noia (non faccio nulla), non è semplice «cessare il lavoro» ma «immergersi nella relazione»: per amore e per amare. O le vacanze servono per curare le relazioni o non riposeremo. Infatti proprio durante le vacanze, la «lunga esposizione» a se stessi e alle persone con cui condividiamo la vita, farà emergere tutto ciò che non abbiamo curato durante l’anno in e attorno a noi: per questo in vacanza a volte ci si può deprimere o si litiga di più, perché tutto il non detto o il non fatto vengono finalmente a galla.
È l’occasione, per quanto faticosa, di rinascere, proprio come accade nel lavoro: riposare è necessario al lavoro tanto quanto lavorare è necessario al riposo. Riposare non è far nulla, ma godere del lavoro fatto e della bellezza del creato, curando le relazioni. Insomma la chiave per rendere il lavoro riposo e il riposo lavoro è l’amore, che non è un’emozione, ma una presa di posizione di fronte a cose e persone: solo se lavoro per amore e per amare allora trovo riposo nell’azione, e solo se riposo con chi amo allora il riposo diventa ri-creazione.
Quest’estate desidero riposare guardando in silenzio il mare, facendo sport con gli amici, scrivendo un nuovo libro, cucinando per qualcuno, camminando in montagna con chi amo, leggendo un libro ad alta voce insieme o passeggiando in riva al mare, bevendo un aperitivo sulla spiaggia con i miei familiari, affrontando finalmente argomenti rimossi o curando ferite trascurate, ballando e pregando…
Le cose che ricordo di più delle holy-days passate, tempo reso sacro dalle relazioni, non dal farsi i fatti propri. Per questo vi auguro di continuare a lavorare riposando e di riposare lavorando, come fanno Dio e i campi, il cielo e la terra, di cui siamo una sorprendente composizione. Nel racconto di Bradbury i coloni di Marte all’inizio sono molto pochi, perché la maggior parte delle persone ha paura della solitudine, ma poi il numero cresce esponenzialmente, come accade su quelle spiagge e valli in cui andavamo a cercare solitudine: l’uomo è fatto per la relazione. Non c’è quindi bisogno di andare su Marte per tornare ad amare se stessi e la Terra, bisogna invece stare proprio in se stessi e sulla Terra del settimo giorno, quello in cui Dio gode di ciò che ha fatto: anche noi. E a proposito di relazioni: grazie a tutti coloro che mi leggono e mi scrivono. Mi capita, con stupore, di ricevere tanta gratitudine per quello che cerco di fare con le parole. Ora, anche per il mio terreno è tempo di riposare per dare nuovi raccolti. Ci rivediamo a settembre. Buon riposo!
Fonte: Alessandro D’AVENIA | Corriere.it