Non ha senso parlare di droga leggera: «La media di principio attivo, che si riscontra nei derivati della cannabis sequestrati dalle forze di Polizia, oggi si aggira attorno al 17-18%», contro l’1% di trent’anni fa. Ci sono «ricoveri per intossicazioni derivanti esclusivamente dall’uso di cannabis». È un luogo comune dire che lo spinello libero sconfigga la mafia: «La realtà va nella direzione esattamente opposta». La Bussola intervista il giudice Alfredo Mantovano, vicepresidente del Centro Livatino, che spiega le ragioni del no alla legalizzazione della cannabis.
Un convegno per dire “no” alla legalizzazione della cannabis: è quello promosso dal Centro Studi Rosario Livatino quest’oggi alle ore 18.15 presso Palazzo Lombardia, in Sala del Gonfalone, a Milano. L’iniziativa intende essere la risposta ai contemporanei «Stati Generali della cannabis», proclamati sempre a Milano per l’8-9 luglio, da Pd e Radicali tra gli altri, e annunciati a fine giugno dal consigliere comunale Dem, Daniele Nahum, lo stesso che si era acceso uno spinello davanti alla sede del Comune di Milano a sostegno della legge in discussione in Commissione Giustizia della Camera per la coltivazione domestica della cannabis. Il tema è tornato prepotentemente alla ribalta dell’agenda politica, nonostante la Corte Costituzionale con la sentenza n. 51/2022 abbia dichiarato non ammissibile il quesito referendario, che puntava a rendere legale la coltivazione di piante, da cui ricavare qualunque tipo di sostanza stupefacente.
Il giudice Alfredo Mantovano – già sottosegretario del Ministero dell’Interno quand’era premier Berlusconi – è oggi vicepresidente del Centro Studi Livatino. La Nuova Bussola lo ha intervistato, per capire bene in quale contesto si ponga esattamente l’attuale azione parlamentare pro-cannabis.
Oggi la liberalizzazione della cannabis pare essere diventata di nuovo una priorità, alla pari di pandemia, siccità e guerra in Ucraina. Che ne pensa?
Io voglio sperare che resti nell’ambito dell’iniziativa parlamentare e che non riceva un appoggio da parte del governo, benché sia stato già abbastanza singolare che, quando il quesito referendario è stato depositato con tutte le firme, nel giudizio di ammissibilità davanti alla Corte Costituzionale il governo non si sia costituito per difendere le norme, che il quesito intendeva abrogare. Questo potrebbe avere il senso obiettivo di una condivisione del quesito e quindi di quel tipo di battaglia.
La questione ora è nelle mani del Parlamento. L’auspicio, che si può formulare, è che la valutazione sia la più obiettiva possibile sia quanto alle premesse di carattere medico-scientifico, sia quanto alla valutazione delle ricadute di tipo criminologico, di prevenzione e di contrasto nella diffusione della droga. Lo spinello è già libero, di per sé, quanto al consumo: l’approvazione di questa legge farebbe fare un ulteriore passo in avanti nella facilitazione del commercio di questo tipo di sostanze.
Il Centro Studi Rosario Livatino, che promuove il convegno, presentandolo, parla di “numeri da pandemia” a proposito del fenomeno droga. È proprio così?
In realtà, i numeri non li diamo noi, ma sono quelli ricavati dalla relazione che ogni anno il Dipartimento Antidroga della Presidenza del Consiglio offre al Parlamento come elementi di valutazione sulle varie dipendenze. La diffusione del fenomeno, soprattutto tra gli adolescenti, nelle scuole, merita ampiamente la qualificazione di pandemia, perché parliamo di un uso massiccio, non contenuto a frange marginali, sul presupposto che, tutto sommato, farsi una canna sia più o meno come fumarsi una sigaretta; anzi, fumarsi una sigaretta è considerato rétro, mentre farsi una canna fa essere trendy. Questo mix di abbassamento di qualsiasi ostacolo di carattere culturale favorisce la diffusione, soprattutto se manca una campagna informativa seria sui danni provocati dalla cannabis. Quando si fece vent’anni fa la campagna contro il fumo a margine della Legge Sirchia, si usarono tutti gli argomenti più opportuni, per mostrare quali fossero i danni derivanti dall’assunzione di nicotina. Qua invece non accade lo stesso per la diffusione della cannabis.
Lei, nel suo intervento al convegno, parlerà dei luoghi comuni sulla cannabis: quali sono?
Io cito dati ufficiali e certificati dal governo: sulla base della relazione annuale della Presidenza del Consiglio, la media di principio attivo, che si riscontra nei derivati della cannabis sequestrati dalle forze di Polizia, oggi si aggira attorno al 17-18%. Trent’anni fa la media di principio attivo era dell’1%. Eppure l’effetto drogante già c’era. Figuriamoci moltiplicarlo per venti, com’è oggi. Per questo, io abolirei il luogo comune relativo alla presunta differenza tra “droghe leggere” e “droghe pesanti”… È un dato consolidato che ci sia una percentuale di ricoveri per intossicazioni derivanti esclusivamente dall’uso di cannabis: quindi, se si va in ospedale, cosa c’è di leggero? Oltre tutto, sono aumentati anche i reati, che dipendono dall’abbassamento dei freni inibitori legato all’assunzione di stupefacenti, reati quali guida pericolosa, furto, rapina, maltrattamenti in famiglia e via elencando…
Chi dice che la canna non fa male è come chi pretende di mettere sullo stesso piano un bicchiere di birra e la stessa quantità di un superalcolico. La birra, soprattutto quella commerciale, ha una gradazione alcolemica del 5%; i superalcolici possono arrivare anche fino al 50%. Anche se la quantità di liquido è la stessa, gli effetti sono notevolmente diversi. È un luogo comune, dunque, dire che la cannabis non faccia male. Anche perché oggi ha effetti ancora più devastanti con le alterazioni chimiche, per le quali si va molto oltre il tasso di THC (il Delta-9-tetraidrocannabinolo, il principio attivo) riscontrabile in natura, in genere non superiore al 2,5%.
Un altro luogo comune consiste nel ritenere che legalizzare il traffico di stupefacenti significhi sottrarre terreni operativi alle organizzazioni criminali, il cosiddetto spinello libero “per sconfiggere la mafia”, il che non riceve alcuna conferma nella realtà, anzi la realtà va nella direzione esattamente opposta. Poiché la cessione di cannabis deve prevedere comunque dei limiti riguardanti l’età, la quantità e la percentuale di principio attivo, la criminalità non farà altro che occupare quella fetta di mercato, che supera ciascuna o tutte insieme tali restrizioni; quindi, ancora di più di quanto avvenga adesso, si rivolgerà ad un pubblico di minorenni, offrirà elevate percentuali di principio attivo e le quantità desiderate, è sufficiente pagare…
Lo si è visto anche con la ludopatia o dipendenza dal gioco. Favorire il gioco legale, perché c’è un introito per l’erario, ha comportato che gruppi di gestori con sale da gioco o piattaforme online a norma spesso possiedano anche sale da gioco o piattaforme online parallele, molto più remunerative e con tassi di rischio ancora maggiori, verso cui attraggono quei giocatori già reclutati negli spazi legali, ai quali però stiano stretti i limiti imposti. Ciò dovrebbe far riflettere anche sulla questione droga.
Parte del contesto politico è ammiccante, il contesto sociale è relativista, quello educativo non alza la voce: insomma, chi ci salverà dalla droga?
È una battaglia culturale, questa. Del resto, secondo l’art. 2 della Costituzione, la Repubblica «richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». Assumere sostanze stupefacenti significa sottrarsi a questi doveri di solidarietà verso gli altri, significa intendere la libertà non come qualcosa di funzionale a far crescere sé stessi e ad aiutare il prossimo, ma come qualcosa di assoluto. Questa, alla fine, è la posta in gioco. Se uno fa una battaglia culturale, può vincerla o può perderla; se non la fa, è certo di perderla. Da qui, il nostro convegno di oggi, con cui si vogliono affermare delle ragioni, che riteniamo essere oggettive.
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