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Il patto sociale che aiuta l’Italia

Ricca di dati, analisi e proposte, la relazione annuale dell’Inps, presentata ieri, si presta a due considerazioni principali.

La prima, molto amara, è che il vero problema strutturale dell’economia italiana, da almeno un paio di decenni, è l’incapacità di generare lavoro sufficiente per tutte, o quasi, le persone in età attiva (tra i 15-16, se non studenti, e i 65 anni di età). Benché risalita, a fine 2021, al livello pre-Covid l’occupazione, è di dieci punti percentuali più bassa della media europea (60 contro il 70 per cento) il che significa un divario molto maggiore rispetto ai Paesi “virtuosi”, come la Germania, dove il tasso di occupazione è al 75 per cento. Se avessimo il tasso di occupazione tedesco, pur con la nostra produttività, il reddito del Paese sarebbe superiore a quello attuale di svariate decine di miliardi di euro, l’Italia sarebbe meno povera, il debito pubblico assai meno preoccupante e le risorse da destinare alle varie emergenze molto maggiori. E se ci riescono altri Paesi, perché non dovremmo riuscirci noi?

Oltre alla scarsità di posti lavoro, abbiamo anche, e in misura crescente, lavoro “povero”, con produttività e retribuzioni basse, lontane dalle competenze dei lavoratori, e forme contrattuali deboli, di breve o brevissima durata (assunzioni di pochi giorni), prive delle tutele assicurate dai contratti più rappresentativi, maggiormente presidiati dal sindacato. Chi si trova invischiato in queste condizioni lavorative o, da disoccupato, non trova di meglio, perde fiducia, competenze, ambizioni e motivazioni, arrivando non di rado a ritenere che “non ne valga la pena” (di cercare un lavoro), con ciò peggiorando la probabilità di trovarne uno più soddisfacente. Si tratta in particolare, dei 2,5 milioni di giovani che non studiano, né lavorano, rassegnati o costretti a una vita con poche prospettive (chi non si sono rassegna va a cercarle all’estero).

Dietro questo quadro impietoso, preesistente al Covid, vi sono molti fattori, ciascuno dei quali spiega una parte di questo “gioco al ribasso”: dallo scarso dialogo tra formazione e lavoro, con diffidenza e sfiducia reciproche, all’inefficacia delle politiche attive, affidate a uffici regionali mancanti spesso di adeguate professionalità, all’oggettiva debolezza di molte imprese, che difficilmente starebbero sul mercato con salari più elevati. Su tutto questo aleggia l’errore tipico dei politici di considerare fisso il numero dei posti di lavoro, da suddividere secondo un ordine sociale di priorità molto tradizionale, che ha sempre visto il “maschio adulto” al centro, in una “cittadella” di diritti nella quale giovani, donne e lavoratori anziani, fanno sempre più fatica a entrare.

Le politiche si sono così incentrate sulla “sostituzione” tra lavoratori e, invece di favorire l’inclusione, hanno favorito la marginalizzazione e tollerato il lavoro sommerso. Lo dimostra la carenza di servizi per l’infanzia e, in generale, per le attività di cura, tradizionalmente considerate compito principale delle donne; o il sostanziale fallimento dei recenti tentativi di conciliare lavoro e genitorialità che ha contribuito non poco al crollo delle nascite; e ancora, le varie forme di pensionamento anticipato, nell’illusione che per favorire il lavoro dei giovani basti limitare quello degli anziani. L’ultima prova di quanto sia sbagliata questa impostazione è stata fornita in modo chiaro da quota 100: un’impostazione piena di pregiudizi e di false credenze che, in definitiva, ha fatto perdere terreno al Paese, perché la ricchezza di un Paese viene dal lavoro, così come dal lavoro, e non dalle promesse dei politici, vengono le buone pensioni.

La globalizzazione e il decentramento produttivo hanno fatto il resto, precarizzando il lavoro degli italiani, posti in competizione con lavoratori di paesi più poveri per i quali retribuzioni, tutele e diritti inferiori ai nostri costituivano comunque un netto miglioramento rispetto alle condizioni precedenti.

La seconda osservazione, speculare alla prima, ma molto più positiva riguarda il fatto che l’Inps è passato dall’essere soprattutto l’ente erogatore delle pensioni al ruolo di gestore dell’intero sistema di welfare, non più concentrato sulla parte finale dell’esistenza bensì sull’intera vita delle persone. Una parte crescente delle prestazioni Inps oggi riguarda sostegni alle famiglie in difficoltà, per disoccupazione, disabilità, numero di figli rispetto al numero di percettori e, ora, anche il caroenergia e l’inflazione. È sintomatico che, nel presentare la relazione, il Presidente abbia dedicato quasi più tempo ai problemi del lavoro e alle misure di contrasto alla povertà che non al tema delle pensioni, pure molto importante, soprattutto se l’inflazione dovesse persistere con un forte aumento delle uscite e non compensate dall’aumento delle entrate, già messe a rischio dal basso numero di lavoratori e da una retribuzione media che ristagna.

Il raccordo tra queste due considerazioni è evidente: la salute e la sicurezza economica nell’età anziana dipendono da quanto ciascuno riesce a realizzare in precedenza, negli anni della formazione (continua) e del lavoro. L’accordo tra governo e parti sociali può, anzi deve, trovare basi solide in questi valori fondamentali e non limitarsi a misure temporanee che, ancora una volta, lascerebbero il tempo che trovano.

Fonte: Elsa FORNERO | BlogFrancescoMacri.com

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