Esiste una giustizia consensuale e riparativa? A colloquio con la psicologa Maria Martello, che ci lavora da 30 anni. “La sentenza chiude il conflitto ma non lo risolve, la mediazione sì”. Un libro che aiuta a risolvere la conflittualità per insegnanti, educatori e ciascuno di noi
«La mediazione non può diventare una giustizia negata. È un percorso con una sua dignità. Da trent’anni mi sembra di essere una voce che urla nel deserto. Io lotto per una giustizia colta, elevata, di un uomo che è andato oltre la logica dell’homo homini lupus e sa ascoltare l’altro, sa cooperare con l’altro, non soltanto competere. Tutto questo fa bene alla giustizia e, di conseguenza, fa evolvere anche la società. L’Italia ha milleduecento condanne dalla corte di Strasburgo per ritardi nei processi. Sono dati obiettivi che devono portarci a migliorare la giustizia. La riforma è necessaria».
«Sei ancora quello della pietra e della fionda, uomo del mio tempo (…)», scriveva, con un profetico senso di immortalità e attualità, Salvatore Quasimodo. La mediazione del conflitto è al centro della riforma della giustizia, ma «non può essere tradita dalla banalità», spiega Maria Martello, autrice del libro Una giustizia alta e altra. La mediazione nella nostra vita e nei tribunali (ed. Paoline). «Servono decreti attuativi capaci di volare alto per un sistema equilibrato e sostenibile, per una nuova ecologia dei rapporti che porti con sé un approccio filosofico e umanistico nella gestione della lite, prima che questa finisca nelle aule giudiziarie. Perché la riforma sia veramente tale, la mediazione deve acquisire un valore e un ruolo nuovo. È un discorso urgente di civiltà, dove tutti siamo chiamati in causa per fare la nostra parte, nessuno può tirarsi fuori. Bisogna formare i mediatori, che devono essere persone di altissimo profilo e qualità, anche morali. Mediatore si è, non lo si fa. Penso a una donna rimasta vedova a trentasette anni, che rimase tale per tutta la vita. Nonostante fosse vedova nella società arcaica, era riuscita ad acquisire un ruolo, che le era riconosciuto nel paese, di mediatore dei conflitti. Era la mia nonna paterna. Questo per dire che la figura del mediatore è di grande profilo, grande esperienza e grande maturità. Però bisogna anche capire che è prioritario formare l’essere umano a diventare tale. Dalle nuove idee sulla giustizia passa la crescita della nostra società, tutta. Al contempo deve risvegliarsi il senso di responsabilità in ciascuno di noi, dobbiamo assumerci la responsabilità di costruire una buona giustizia».
Ma l’uomo del nostro tempo quanto è cambiato? È ancora fatto solo di istinti, pulsioni, sentimenti, egoismo o c’è in lui il germe futurista dell’uomo nuovo, di quel Cristo morto e risorto per l’uomo? Esiste una giustizia consensuale, riparativa e umanistica efficace? Che non trasferisca negli altri le proprie responsabilità, che non pretenda di cambiare le strutture ma cambi prima di tutto la coscienza dell’uomo, che lo impegni in una risposta personale e comunitaria? È davvero possibile comporre la lite prima di arrivare in giudizio? Abbiamo a disposizione strumenti efficaci, formatori altrettanto efficaci, una Legge che riconosce pari dignità e nobiltà di quella processuale all’attività di mediazione? Nel 2011 l’allora Ministro della Giustizia incominciò a introdurre la mediazione come obbligatoria. Un passo avanti, certo. Ma la mediazione non può essere relegata a un ruolo meramente deflattivo o risulta abortita sul nascere. Serve un tiro più alto.
Maria Martello nel suo libro ci conduce alla riflessione, non a quella spicciola che poco conta, ma a quella che sa mettere le ali all’uomo per farlo volare, in un volo dettato non dall’istinto, che porterebbe le sue ali di cera a sciogliersi troppo vicino al sole, ma dalla consapevolezza di sé. Un libro di educazione civica formativo per il cittadino (“per gli specialisti ho già scritto”), per insegnanti, educatori, avvocati che accompagnano le parti in mediazione. Come una mamma prima e una nonna poi prende per mano il suo bambino, l’autrice con i suoi libri – sedici in totale, fra cui il precedente Costruire relazioni intelligenti – accompagna il lettore in un percorso di crescita esponenziale, non lasciandolo mai solo ma guidandolo. «Quando deleghiamo al giudice stiamo in qualche modo perdendo il senso di responsabilità rispetto agli eventi della nostra vita. Diventare adulti non è un fatto di età, ma di capacità di prendersi delle responsabilità per quello che ci accade e trovare delle soluzioni. È il principio di fondo della mediazione», sottolinea la professoressa Martello, che tratta questi temi dalla fine degli anni ’90, quando ancora non se ne occupava nessuno. «A livello sociale è un’educazione fortissima perché guida le persone a non delegare. Con la riforma, da una parte bisogna migliorare l’esistente, quindi intervenire sul rito processuale, sull’organizzazione dell’apparato giudiziario. Ma non possiamo fermarci qui, il diritto evolve come evolve l’essere umano. Oggi dobbiamo riflettere, come faccio nel libro, sul senso nuovo del giudicare. C’è una giustizia ‘altra’ per risolvere la conflittualità, che risponde veramente, e non come la precedente, ai bisogni dell’essere umano e che deve essere introdotta nell’apparato giudiziario con la stessa nobiltà e cura che rivendichiamo all’attuale sistema giudiziario. La sentenza chiude il conflitto ma non lo risolve, invece la mediazione sì, e ci riesce grazie ad accordi che stanno bene ad entrambe le parti perché li hanno scelti liberamente con l’aiuto del mediatore. Con la mediazione si scava dietro i problemi oggettivi, si indaga la sfera soggettiva legata al vissuto dei contendenti e alla base del loro conflitto. Questa giustizia ‘altra’ è una giustizia che molto può piacere alle persone frustrate che hanno tentato tutte le strade possibili pur di trovare un accordo con la persona con cui stavano litigando, ma senza riuscirci, con la conseguenza che la lite ha avuto una escalation ed è divenuta contenzioso. Questo ha caricato di disperazione la persona che ce l’ha messa tutta per andare d’accordo con la controparte».
C’è differenza tra punire e riparare. Tra giudicare e comprendere. Dostoevskij diceva che «non c’è niente di più facile che condannare, niente di più difficile che capire». Le sentenze soddisfano il nostro bisogno più profondo? «Giudicare è una delle qualità più radicate nelle persone. L’ascolto non giudicante, l’accettazione del punto di vista diverso sono ancora una conquista lontana. Giudicare è una licenza infantile che mi fa pensare che il mio piccolo punto di vista possa essere il metro per giudicare gli altri punti di vista. Bisogna interrogarsi in cosa differisca il nostro diritto attuale retributivo dalla legge del taglione. Oggi chi subisce il torto non può farsi giustizia da solo come in passato ma è un organo terzo che lo fa per lui. In che modo, però, lo fa? Il diritto evolve, l’uomo evolve per accogliere nuove forme più rispondenti al futuro che vogliamo costruire. Un futuro dove il diritto non sia solo retributivo ma realmente riparativo. Questa è la finalità della mediazione, che è una giustizia ripartiva. Nella mediazione non si parla “a” ma “con”. Questo porta a un dialogo rigenerativo fra i due litiganti. Oggi la mediazione è residuale, perché all’inizio del suo percorso, ma io mi auguro che questa nuova logica nel terzo millennio prenda il posto della logica del taglione».
L’affondo: “Il conflitto non è né un errore della vita né una patologia che deve essere trattata da psicoterapeuti, ma fa parte del senso del vivere, del nostro stare al mondo e quindi deve avere un significato filosofico”. L’educazione della persona inizia in tenera età ed è prima di tutto una educazione all’amore. “Bisogna formare la persona all’empatia, al cuore, all’ascolto, come dice papa Francesco, un ottimo compagno di strada. Dobbiamo imparare ad acquisire tutti gli elementi per gestire in autonomia i conflitti senza farli diventare liti giudiziarie. Si deve iniziare dalla scuola elementare a formare il cittadino su queste tematiche, fino ad arrivare al professionista mediatore. Educare con senso senza dissenso significa dare un senso alla formazione per evitare il dissenso dei ragazzi. Non ci si relaziona in modo intelligente istintivamente, ma in modo colto, e questo va imparato. Si tratta di costruire la persona e con essa una nuova civiltà. Dobbiamo creare una responsabilità virtuosa di tutti, invece stiamo annegando in tante cadute etiche, in tante cadute di responsabilità. La formazione umanistica e filosofica deve essere alla base della formazione del mediatore, mentre oggi si parla solo di insegnare le tecniche della transazione. Puntare tutto sulla tecnica significa far fallire la mediazione. Non si può neanche ridurla a una buona transazione, né tantomeno a delle manipolazioni».
Nel libro non manca la dedica alla guardasigilli Marta Cartabia: «Sta restituendo la nobiltà che alla mediazione era stata tolta quando era stata strumentalizzata solo per fini deflattivi. Abbiamo avuto il coraggio di introdurre una modalità ‘altra’ che dà un senso nuovo al giudicare e può diventare un modello virtuoso, positivo da utilizzare nelle nostre relazioni quotidiane. Adesso serve che l’impegno attuativo non tradisca la sostanza della mediazione. Tanti negli anni si sono innamorati della mediazione per poi tradirla. Non buttiamola alle ortiche solo perché non ne siamo all’altezza. Dobbiamo, invece, elevarci per essere all’altezza dei suoi principi. Guai ad abbassarli al nostro livello, avremmo fallito». Il riferimento nel libro a San Francesco non è casuale. «San Francesco non è uomo del futuro e non è uomo del passato prossimo, eppure possiamo rileggere uno dei Fioretti alla luce dei principi della mediazione. Gli abbiamo dato la laurea honoris causa per essere stato il mediatore ante litteram. Nella nostra tradizione culturale e religiosa ci sono i presupposti della mediazione, basta saperli vedere. San Francesco era in sintonia con tutti gli esseri dell’universo, dalle piante al sole agli animali. Noi, invece, siamo piccini, tra esseri umani siamo l’uno contro l’altro armati. San Francesco ci ha insegnato la diversità e l’unità nella diversità, il rispetto. Se noi formiamo a questi principi, ci aiuteranno a superare i conflitti, le differenze di religione, le problematiche di gestione dell’ambiente, facendoci uscire dallo stagno in cui versiamo come piccoli esseri dell’universo che si sentono al centro del mondo. La mia natura diventa ‘alta’ perché è in armonia con gli altri. Quando si dice che la diversità è un valore, ma ci si ferma solo a un’affermazione generica, non serve a niente. Solo quando le persone sono educate all’ascolto le une delle altre secondo i principi della mediazione succede che di fatto, dentro, scatta l’accettazione della diversità. Dovremmo ricercare la diversità perché ci caratterizza. Dovremmo cambiare quell’atteggiamento dell’adolescente che si identifica nel compagno del cuore. Ognuno ha sfumature sue, la bellezza è nell’armonizzare queste diversità. Tutta la mia formazione parte da questo concetto. Solo la persona che ha accettato la propria unicità è capace di darsi un valore e nello stesso tempo di riconoscerlo agli altri”. All’ingresso della biblioteca del Congresso di Washington c’è una frase che riassume tutto questo senso profondo, che ci fa capire come le discipline e i saperi siano strettamente interconnessi, circolari: “In the past the future».
Fonte: Francesca FIOCCHI | FamigliaCristiana.it