Il titolo più buffo fra quelli dei quotidiani italiani che hanno commentato la sentenza della Corte suprema degli Stati Uniti che ha negato all’aborto la dignità di diritto costituzionale è senz’altro quello della Stampa di Torino, quotidiano già di proprietà della famiglia Agnelli e oggi della Gedi, presieduta dall’erede designato di Gianni Agnelli, cioè John Elkann. La Stampa ha strillato in prima pagina, come un qualunque ciclostilato di un centro sociale, “L’America che odia le donne”.
Il titolo è molto buffo, perché dai sondaggi della Gallup risulta che un terzo delle donne americane si dichiarano pro-life in opposizione a pro-choice, e perché fra gli “amicus curiae” che hanno sottoposto ai giudici della Corte pareri favorevoli a cassare la sentenza Roe v. Wade ci sono anche molte associazioni femminili. Una donna americana su tre odia se stessa, è masochista?
Liberarsi di un inciampo per la carriera
Ma se poi si leggono gli articoli delle commentatrici alle quali La Stampa ha offerto la sua tribuna (ai colleghi maschi non è stato concesso il diritto di parola) si capisce meglio in cosa consisterebbe questo odio: in poche parole, l’aborto legale consente alle donne che erano rimaste incinte contro le loro aspettative di liberarsi dell’inciampo che ostacolerebbe i loro studi, carriere, successi professionali, indipendenza economica, eccetera.
Quindi chi vuole limitare o vietare l’aborto vuole in realtà negare alle donne genericamente intese l’educazione di livello terziario e la mobilità sociale. Le vede come concorrenti nella corsa per il potere e il prestigio dentro alla società, e sfrutta quella iattura che la natura ha appioppato alle donne e che si chiama gravidanza per tenerle al palo, impedendo loro di abortire, o comunque rendendo la cosa complicata.
La gravidanza come handicap
Abbiamo già evidenziato molte volte che la concezione abortista della gravidanza come handicap è la strada maestra che ci porterà alla completa artificializzazione della procreazione, passo decisivo sul cammino verso la post-umanità. In nome delle pari opportunità e dell’uguaglianza fra uomo e donna prima si abolirà la donna (grazie alle tecnologie riproduttive e alle leggi promosse da quelli che ”amano” le donne), e poi l’ essere umano tout court, sostituito da dispositivi tecnologici a loro volta destinati al rimpiazzamento per obsolescenza. Prima di ciò, l’abortismo (inteso come la visione dell’aborto come diritto umano) ci porterà alla completa subordinazione della vita all’economia intesa come crescita materiale illimitata del singolo e della comunità.
Leggendo il Wall Street Journal del 26 giugno si scopre che effettivamente l’impatto dell’aborto sulle prospettive economiche del singolo e della società è stato uno degli argomenti che sia i favorevoli che i contrari alla vecchia sentenza Roe v. Wade hanno sottoposto all’attenzione della Corte. Associazioni e gruppi di esperti dell’uno e dell’altro fronte hanno cercato di dimostrare che la propria posizione in merito all’aborto legale aveva conseguenze economiche positive, mentre quella avversa aveva conseguenze economiche negative. Molti sono gli studi che negli ultimi cinquant’anni hanno cercato di dimostrare che grazie all’aborto legale le donne usufruivano di migliorati livelli di formazione scolastica ed accademica, non si sposavano più in età adolescenziale, scalavano posti di lavoro sempre più remunerativi, e la società risparmiava in spese per le carceri perché erano nati meno ragazzi destinati alla criminalità.
Studi più recenti hanno messo in discussione queste conclusioni, riferendo invece di donne (passate attraverso l’aborto) intrappolate in relazioni di coppia sempre più brevi, che incidevano negativamente sul loro livello di povertà e insoddisfazione personale; e di tassi crescenti di madri single a causa del fatto che uomini deresponsabilizzati dalle legislazioni abortiste le abbandonavano quando queste non accettavano di ricorrere alla facile strada aperta dalla legge. Uno di questi studi, firmato da 43 ricercatrici donne, è stato presentato alla Corte suprema per convincere i giudici a ribaltare la sentenza Roe v. Wade. Altri studi semplicemente concludono che la legalizzazione dell’aborto non ha avuto un impatto significativo sulle prospettive di educazione e di lavoro delle donne.
Non c’è più niente di sacro
Questo approccio alla questione dell’aborto legale è mortificante quando è adottato dai pro-life, perché fa propria la logica degli abortisti, quella cioè secondo cui il diritto alla vita del concepito è subordinato ai vantaggi materiali che da esso deriverebbero o meno ai singoli genitori e alla società. Questa si chiama reificazione della vita umana: la vita umana nelle sue varie forme, condizioni e stadi è una cosa, e al singolo e alla società spetta valutare quanto quella cosa sia vantaggiosa o svantaggiosa per la realizzazione dei propri obiettivi.
Stabilire se il concepito merita il rispetto che si deve alla sacralità della vita oppure no, perché è solo una cosa fra le altre, diventa irrilevante. Non c’è più niente di sacro, di intangibile a questo mondo: se non è conveniente per le aspirazioni del singolo, per la crescita economica, per l’aumento dei profitti e dei consumi sostenibili, niente sarà rispettato, niente sarà accolto, niente e nessuno potrà vantare una dignità intrinseca che impone l’inviolabilità.
Verso la totale sostituibilità dell’uomo
Ma un essere umano ha i diritti dell’essere umano, e il feto è un essere umano perché ha un Dna distinto da quello della madre, obiettano certi pro-life. Magari fosse così facile. La dignità di essere umano del feto non si stabilisce in base alle evidenze della scienza (e questo vale sia per i pro-life come per i pro-choice, che parlano di “grumo di cellule”), ma in base a un giudizio etico fondato su di un’antropologia. Più l’antropologia ha un’impostazione materialista, e più l’affermazione della dignità dell’essere umano potrà essere ristretta.
Se la realtà è solo e soltanto materia identica a se stessa e misurabile per quantità, la definizione di essere umano che in quanto tale ha diritti inviolabili sarà sempre più ridotta. Peter Singer potrà in buona fede affermare che anche i neonati prima di un certo stadio di sviluppo oppure gravemente malati non sono persone, e quindi possono essere eliminati lecitamente:
«Il principio di sostituibilità permette di uccidere il neonato malformato e di procedere con un’altra gravidanza».
Siamo tutti potenzialmente obsoleti
E che cosa è stata la schiavitù se non un’istituzione sociale che stabiliva che certi esseri umani non erano pienamente umani, tanto che potevano essere usati come cose da altri esseri umani?
E che cos’è la guerra se non quello stato particolare in cui alcuni esseri umani – i nemici – perdono gli attributi di inviolabilità propri degli esseri umani e possono essere abbattuti come selvaggina?
E perché un domani non si potrebbe decidere, a maggioranza, che quelli convinti dell’illiceità dell’aborto, dell’invalidità dei matrimoni fra persone dello stesso sesso, della necessità di non esporre i bambini delle elementari a indottrinamento da parte di esperti sulle cose che riguardano il sesso, sono esseri umani obsoleti, che non hanno tenuto il passo con l’evoluzione della specie umana, e quindi sono meno uomini degli altri e non possono avere i loro stessi diritti?
L’imperativo del risparmio
Una volta che il paradigma materialista sia diventato dominante, non ci sono limiti ai potenziali cambiamenti in materia di riconoscimento dell’umanità – e dei relativi diritti – all’uomo nei suoi vari stadi, dallo zigote all’anziano. E siccome il materialismo di oggi è di tipo economicistico (non è quello di Feuerbach), la definizione di essere umano risponderà agli imperativi dell’economia, quelli che riguardano la dotazione di mezzi dei singoli e quelli che riguardano la necessità di realizzare risparmi da parte dello Stato.
L’essere umano è costoso per le casse pubbliche, e se non può consumare a volontà è inutile per il mercato: bisognerà restringere la definizione sempre di più, per far tornare i conti.
Fonte: LaStampa.it