Esce il dialogo, tenuto nel 2020 a Mantova, tra Noam Chomsky e Andrea Moro: «Il cervello di fronte a regole “impossibili” attiva reti diverse da quelle “possibili”»
Be’, lo sapevamo da sempre: «Il gulco gianigeva le brale». Scherzi a parte, non è una citazione del Finnegans Wake di Joyce, ma un noto esperimento di pseudo-parole che fa emergere l’affrancarsi della sintassi dalla semantica: nonostante la stramberia ai limiti del flatus vocis, l’area di Broca – area del linguaggio articolato, presente nell’emisfero cerebrale sinistro – ci consente di decodificare l’esattezza sintattica della frase (soggetto / verbo / complemento oggetto), cioè la sua struttura gerarchica. Cosa che non accade con locuzioni ‘impossibili’, inserendo ad esempio la negazione dopo l’articolo: «Piero mangia la no pera». Spunti di tale tipologia vengono fuori nell’interessante (e dotta) conversazione tra Noam Chomsky, inventore della grammatica generativa, infaticabile analista politico, docente emerito al Mit del Massachusetts (e recentemente affiliato all’Università dell’Arizona), e il suo ex allievo, il neuroscienziato Andrea Moro, rettore vicario alla Scuola universitaria superiore Iuss di Pavia, nel libro I segreti delle parole (La nave di Teseo, pagine 144, euro 15,00). Come un amichevole duello a singolar tenzone, il dialogo è scaturito dall’incontro virtuale al Festival della Letteratura di Mantova 2020 ed è stato perfezionato tra Tucson e la Lombardia. Insomma, a quali risultati porta l’esperimento sopracitato? Ce lo spiega Moro: «Anche senza istruzioni il cervello è capace di riconoscere le regole possibili contrapposte a quelle impossibili, cioè regole che si basano sulla gerarchia rispetto a regole che si basano sull’ordine lineare. Più in dettaglio, siamo giunti a questa conclusione con misurazioni neurobiologiche: la rete che il cervello attivava quando affrontava le regole impossibili non era la stessa usata per le regole possibili». Vale a dire: «Le regole impossibili, cioè regole lineari o ‘piatte’, sono trattate dal cervello come un rompicapo, coinvolgendo strategie tipiche della risoluzione dei problemi, cioè come qualcosa di radicalmente diverso dalle strutture grammaticali. Le ‘lingue piatte’ non sono lingue umane: possono essere parlate solo nelle ‘terre piatte’». Ciò significa, come si è visto chiaramente nelle misurazioni linguistiche dei bambini, che la sintassi poggia non su «convenzioni culturali di natura arbitraria », ma su una «computazione neuronale» protesa a forme innate, fatto previsto da Chomsky nei suoi saggi sin dagli anni Cinquanta. Infatti, lo studioso americano precisa: «L’infante ignora il cento per cento di ciò che ascolta, come fosse un riflesso e senza esperienza, ed evita le computazioni semplici su questi dati; invece si occupa solo di ciò che crea la sua mente, adottando senza alcun indizio il principio di dipendenza dalla struttura». I circuiti canonici non attivati dal cervello quando decritta le ‘lingue impossibili’ spingono la ricerca verso nuove frontiere: il passaggio – secondo Moro – dal «dove nel cervello si attiva una certa rete» al «cos’è un’informazione effettiva che passa da un neurone all’altro». Forse aveva ragione Walter Benjamin: esiste un idioma perfetto e originario, la cosiddetta pura lingua, frazionata in mille rivoli dopo la caduta di Adamo dall’Eden. Certo è che la grammatica generativa (con i suoi inevitabili limiti), grazie al contributo della neurobiologia e delle scienze cognitive, è riuscita a imporre modelli matematici che andassero oltre le «intuizioni approssimative, soggettive e aneddotiche » della disciplina tradizionale (saussuriana, per intenderci, comunque non priva di meriti). Inoltre Chomsky, con «l’inclusione della sintassi tra le scienze sperimentali, lo sviluppo di un formalismo (…) e la misurazione dei correlati neuronali dei fenomeni sintattici», ha inaugurato un nuovo metodo nella linguistica odierna, come sottolinea Moro nelle dense note a margine della conversazione. Cartesio, Galileo, Newton, Turing, la fisica contemporanea, persino il deep learning e l’euforia (perniciosa) per i Big Data: è un confronto a tutto campo che tenta di toccare con mano i ‘confini di Babele’, ossia «la capacità latente di acquisire qualsiasi lingua entro un certo lasso di tempo dalla nascita » (una sorta di ‘mente staminale’). Moro e Chomsky sono concordi nel non escludere che «gli esseri umani non arrivino mai a comprendere la creatività nel linguaggio », «la capacità di esprimere un pensiero verbale indipendentemente dal proprio ambiente fisico». E torniamo a Joyce, al chaosmosdi Finnegans Wake. Il linguaggio rimane un mistero fitto: Eric Lenneberg «studiò casi di disabilita linguistica. Cioè persone con una corteccia cerebrale praticamente inesistente, o non rilevabile, che avevano una conoscenza del linguaggio eccellente. Com’è possibile?», si domanda esterrefatto (ma in ‘stile galileiano’) Chomsky. Da dove viene la lingua e perché è scintillata nell’uomo, nell’Homo Sapiens, 100mila anni fa? Lo ricorda anche Cormac Mc-Carthy, nel suo unico saggio, The Kekulé Problem, uscito nel 2017 sulla rivista Nautilus: «Tutti gli indizi dicono che la lingua è apparsa una sola volta e in una sola specie. Nella quale poi si è diffusa con notevole velocità. (…) L’evoluzione del linguaggio inizierebbe con i nomi delle cose. Dopo di ciò verrebbero le descrizioni di queste cose e le descrizioni di ciò che fanno. La crescita delle lingue nel loro aspetto e forma attuali – la sintassi e la grammatica – ha un’universalità che suggerisce una regola comune. La regola è che le lingue hanno seguito i propri requisiti. La regola è che esse sono incaricate di descrivere il mondo».