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La pioggia di 100 alla maturità mostra che scuola e università sono arrivate al bivio

Occorre decidere se imboccare la via del modello selettivo per formare persone in grado di cambiare la società – com’era nelle corde delle militanze cattoliche, liberali e comuniste – o assumere la versione anglosassone costruita sul mondo del lavoro.

Il cento e il cento e lode diffusi non fanno più scandalo, se non fosse che è difficile riempire i giornali estivi. Di fatto, interessano poco a tutti. Interessano poco agli studenti, che sono i primi a sapere che l’esame di maturità non è più una barriera, tantomeno un simbolo. La questione è entrare nei numeri chiusi delle università e, ormai, conquistati dalla mentalità americana, la vera sfida è entrare in certe università, che la fama – a torto o a ragione, e spesso a torto e all’estero per i figli della bene – rende simbolicamente importanti.

Ma il voto non interessa molto neanche ai genitori e ai professori, ormai perfettamente e reciprocamente consapevoli che la scuola non boccia più e che conta il tentativo di fare squadra per un voto più alto che servirà per il prestigio e il quieto vivere degli uni e degli altri, e per eventuali competizioni future dove esibire il primo successo. La differenza tra nord e sud, e tra posti piccoli e grandi, credo sia dovuta solo alla socialità che si vive, per cui questa consonanza di intenti può essere più o meno stringente.

Pioggia di 100 su un dilemma aperto da 20 anni

La pioggia di 100 di quest’anno, forse accelerata da due anni di pandemia, dalle paure di ricorsi con risvolti sanitari e regolamenti Covid, mette però in luce il dilemma di fronte al quale la scuola superiore e le università italiane si trovano da più di 20 anni.

Occorrerebbe decidersi se fare una scuola e un’università selettive che servono a formare personalità in grado di cambiare la società – com’era per diversi motivi nelle corde delle diverse militanze politiche novecentesche cattoliche, liberali e comuniste – oppure accettare definitivamente la versione anglosassone che è costruita sul mondo del lavoro. Inutile dire che entrambe hanno buone ragioni.

Scuola selettiva o anglosassone: bisogna scegliere

La prima garantisce qualità alta anche se riservata a pochi, che dovrebbe funzionare come leva per migliorie sociali e industriali importanti in ogni campo. Abbinata all’insegnamento professionalizzante, è stata senza dubbio uno dei fattori della crescita del paese nella seconda metà del Novecento. La seconda, quella anglosassone, può invece vantare i successi economici del mondo americano globalizzato e poggiare sul fatto che i laureati trovano di più il lavoro. I difensori di questa versione fanno notare che la tragedia dell’occupazione giovanile italiana comincia anche da uno dei tassi di laureati più bassi d’Europa (penultimi) e da uno sbarco tardivo nel mondo del lavoro.

O un sistema o l’altro, il coraggio delle riforme

Il contrario è il ritorno a una scuola e un’università ultra-selettive, avendo il coraggio di innalzare difficoltà e livelli in tutti gli ordini e gradi che portano fino al dottorato, di garantire percorsi professionalizzanti efficaci distinti da quello universitario e magari, come succede in Francia, di creare sistemi di alte scuole immediatamente connesse ad alcune carriere di servizio pubblico.

Hanno vantaggi e svantaggi entrambe e l’unico vero errore è quello che stiamo perseguendo: rimanere a metà del guado, con gli svantaggi dell’uno e dell’altro sistema, spostandoci progressivamente verso quello americano ma senza assumerlo coscientemente e senza riforme corrispondenti, tenendo le forme e le retoriche di quello antico. Non occorrono ulteriori analisi ma una decisione: o un sistema o l’altro. Visto che siamo in epoca di elezioni, vediamo se c’è uno dei contendenti che riuscirà a dire che cosa vuole.

Fonte: Giovanni MADDALENA | Tempi.it

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