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Nessun film già visto, Tredici vite è un formidabile bagno di realtà

 

Benedetto Ron Howard, che non fa la morale sulla storia dei ragazzini intrappolati nella grotta thailandese nel 2018 e ci riporta a quei fatti immergendoci nella strada per arrivare a loro. Senza prosa del dolore

Sì, è vero, nell’estate del 2018 c’eravamo anche noi: ma che preoccupazione sarà mai quell’epilogo scontato innanzi ai fatti così potenti che si verificarono quell’estate? Ron Howard ha fatto un grande film,Tredici vite (disponibile su Prime Video dal 5 di agosto), sulla storia verissima dei dodici piccoli calciatori di una squadretta di calcio locale e del loro allenatore che restarono intrappolati dal 23 giugno al 10 luglio nella grotta di Tham Luang, in Thailandia, dopo essere stati sorpresi da un’alluvione.

Sì, è vero, lo stanno scrivendo in tanti: Ron Howard ai fatti non ha aggiunto nulla. Ma che c’era da aggiungere? Ha fatto un film sul salvataggio di quelle tredici vite. ma soprattutto su di noi. Che durante i Mondiali del 2018 siamo stati capaci di stare attaccati allo schermo e in cuor nostro in ginocchio davanti a quell’imponente, muta e terribile spelonca senza prediche, solo in ascolto, in attesa che da quell’enorme viscere nero uscissero tredici ragazzini, mentre sopra la montagna le nuvole continuavano ad addensarsi.

E poi li avevamo visti, il 2 luglio, quando li avevano ritrovati tutti interi, li avevamo guardati nei video dei soccorritori, e ne avevamo scrittotutti: le facce ridotte a ossa spettrali, le gambe come stecchi, le mani giunte illuminate dalla torcia a ringraziare mentre nel grande utero nero, una voce di uomo aveva chiesto loro in inglese quanti erano, siete forti, aveva ripetuto, siete qui da dieci giorni, torniamo a prendervi. E quando la luce si era spenta su quelle tredici vite, su quelle tredici facce, su quelle tredici ostie,  si era fatto buio anche dentro di noi – uomini, donne, madri, padri, ragazzi -, la loro solitudine si era appiccicata anche alle nostre ossa – li avevamo sentiti i risucchi e gli sciabordii dell’acqua che rimbombano nell’oscurità, i piedi impastati di fango, gli occhi aperti nel buio.

Scava, scava, non riuscivamo ad “adottarli”

Ron Howard ha fatto un gran film riportandoci davanti a quella grotta a immaginare i primi dieci giorni dei ragazzini a rubarsi l’ossigeno, a bere fango, ad aspettarci. Un gran film sul tradimento delle aspettative del grande pubblico: proprio non eravamo riusciti ad “adottarli”, questi bambini, la montagna che sovrastava la grotta non partoriva il teatro delle passioni, i sentimenti, non c’era Ciro sotto le macerie del terremoto di Ischia o i minatori cileni nella miniera di San Josè: pochissimo era uscito sui bambini, qualcosa sull’allenatore Aek orfano di padre e madre e fratello, cresciuto dai monaci buddisti.

Sapevamo solo che era stato lui ad averli portati nella grotta (c’erano i cartelli, era allora tutto un ripetere in Thailandia, non dovevano entrare, chissà quanto ci costa), avremmo saputo solo in seguito che era stato lui a tenerli in vita per dieci giorni, un ragazzo orfano colpevole che si era fatto giovane padre nel ventre della montagna matrigna.

Ma allora, durante quei giorni di infiniti di titoli e servizi dalla Thailandia, avevamo di fatto riempito di parole il silenzio. Scava, scava, nessuno riusciva a tradurci in poesia, prosa, perfino sceneggiatura la paura, nulla ci era familiare in quella tragedia, scava scava ed era più l’acqua drenata dalla montagna che le informazioni cavate dagli inviati. E forse è stata questa reverenza, questo non osare tradurre in sillabe l’angoscia di quei genitori, di quei bambini, ad averci assaltato di domande e condotti tutti all’imbocco della grotta a cercare quell’alito di vita dove atona sembrava la tragedia. E certo è stata questa la strada scelta da Ron Howard: non darci nulla, darci pochissimo, darci quello che si sapeva. Insieme a ciò che veramente ci mancava: la strada per arrivarci.

Tentare un «fottuto suicidio»

Non poteva Ron Howard ricamare sui turbamenti e l’angoscia dei due sommozzatori inglesi Rick Stanton e John Volanten che trovarono i piccoli e li salvarono mettendo insieme due amici, un medico e un espediente terribile per portarli fuori. I sommozzatori dopo la tragedia vennero invitati ovunque a raccontare, ripetere, narrare l’operazione di soccorso più grande, rischiosa, pericolosa mai tentata prima.

Il regista di A beautiful mind obbedisce agli avvenimenti concitati di quei giorni, il muoversi della comunità internazionale, l’arrivo dei sub migliori del mondo, i progetti che si infrangono quando ci scappa il morto, il sommozzatore volontario Saman Kunan, ex membro dei Navy Seal che muore durante le operazioni di salvataggio, l’ossigeno che nella grotta continua a calare, la pioggia che cade, chi ci capisce qualcosa che spiega che portarli fuori dal camino è un «fottuto suicidio», le retromarce sull’idea di addestrarli, la necessità di farli uscire subito e le mappe che immortalano quel dedalo letale di sporgenze, correnti, melma, buio e apnee e tutti, gli esperti, le famiglie, noi in poltrona, tutti a chiederci chi mai di noi, dei nostri figli, chi riuscirebbe a fare una cosa del genere? Con quale speranza?

Immergerci nel tunnel e nel cuore del film di Ron Howard

Eccolo, allora, il film di Ron Howard. Nessun indagine sul dolore delle famiglie, sulla paura del governatore lasciato solo a gestire la tragedia, sullo strazio dei Navy Seal che hanno perso un amico, nemmeno sulla solitudine dell’ingegnere che da solo raduna un popolino a drenare la montagna, o dei contadini che acconsentono a perdere il raccolto perché quello tsunami di fango drenato venga riversato nei loro campi, per dare solo “una possibilità” ai ragazzi.

E ci volevano due bravissimi come Viggo Mortensen e Colin Farrell, per convincerci – senza speranza di trovare i tredici o tirarli fuori vivi – a immergerci e seguirli mentre come Stanton e Volanten infilano tuta, bombole, e scendono nella grotta, nel tunnel di acqua, nel cuore del film di Ron Howard. A metterci su quella strada che ha separato noi, il mondo in ginocchio fuori dalla grotta, e i tredici piccoli soldatini che scrivevano biglietti da consegnare a mamma e papà e far diramare dai giornalisti all’imbocco di Tham Luang: «Stiamo bene, un po’ freddo, un po’ fame, non preoccupatevi».

La strada nella gola tra cielo e terra

La strada: una sola in un labirinto di stalattiti, melma, correnti, portava ai bambini, le altre al nulla, ed era larga come un solo uomo e lunga oltre cinque ore d’immersione e diverse bombole d’ossigeno. Ron Howard ha fatto un grande film perché ha obbedito alla realtà fuori dalla grotta, oltre il pelo d’acqua, in superficie, per poi immergersi e immergerci nel cuore della tragedia, in quel tunnel, in quel solo luogo dove era possibile afferrare qualcosa di ancestrale, quella riverenza primordiale che insieme al fango vischioso ci avrebbe restituito i ragazzini tutti ossa e palpiti e gambe sottili come fili d’erba.

Una gola tra cielo e terra dove da sempre l’unica legge a regnare è quella del mistero e dell’energia tellurica, dove tutto è origine e rinascita, non per altro sulla vulnerabilità di un bambino di Betlemme è iniziato per i cristiani il mondo intero. Ron Howard ha fatto un film su una via, terribile e spaventosa che porta alla salvezza. Un film che non aggiunge nulla alla realtà, ed è questa la sua portata eccezionale.

Tornare in ginocchio a Tham Luang

Qualcuno l’ha chiamato documentario, reportage asciutto, ha parlato di pura spettacolarizzazione del tunnel, lamentato l’assenza di guizzi, idee, melodramma. Sono passati quattro anni e ancora oggi al grande pubblico manca una morale familiare, che faccia del sentimentalismo il suo unico criterio di giudizio, il suo agognato sospiro di sollievo. Ed è questa la grandezza del film, non aver riempito di costrutti sociali una tragedia misteriosa: averci riportato tutti in ginocchio davanti al mistero della grotta di Tham Luang con una domanda di salvezza.

Fonte: Caterina Giojelli | Tempi.it

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