È scomparso ieri Leo Aletti (1945-2022), ginecologo, primario. Ha dedicato la sua vita professionale e umana a salvare vite dall’aborto
Leo Aletti (ho saputo che si chiamava Leandro quando mi mostrò un avviso di garanzia o qualcosa del genere), deceduto durante la solennità dell’Assunta, non credo sia davvero morto, nemmeno nel suo corpo.
Mi permetto questo esercizio apparentemente assurdo, essendo consapevole che le sue spoglie giacciono senza respiro, non per gusto del paradosso, ma perché se c’è uno che non avrebbe assolutamente creduto possibile che Gesù – il Signore della sua vita, risorto con il suo corpo che si poteva toccare, e “salito alla destra del Padre” – potesse accettare che sua Mamma non fosse accanto a Lui in Cielo, non come anima e basta, ma proprio con il suo corpo nella piena bellezza di Vergine Madre, con il suo utero e non per modo di dire; ecco se c’era uno al mondo era lui, Leo Aletti, avendolo presentito e poi udito da don Luigi Giussani. Il servo di Dio predilesse in vita la sua irruenza ingenua eppure colta: Leo era uno che non si vergognava di Gesù Cristo, e neanche di tirar fuori dal bidone il feto di 22 settimane, buttato lì come carne maciullata, ma che respirava ancora, era un uomo-bambino. Leandro chiese dell’acqua e lo battezzò con il nome di Leandro.
Una storia che è accaduta davvero, non erano riusciti a uccidere il bambino, ma era destinato a morire di lì a poco. Ma usò la pietà di Cristo, la stessa che fa intitolare “Pietà” la scultura di Michelangelo dove Maria accoglie tra le sue braccia il cadavere del Figlio, e così depose “in una culla al caldo la creaturina, che fu dissetata a intervalli con delle gocce d’acqua. Tornai al lavoro e alle 18 mi arrivò una telefonata: il piccolo Leandro era morto. Un Santo in più in Paradiso”. Lo ha raccontato nel suo libro Carne, ossa, muscoli e tendini. In difesa della vita nascente (Gribaudi). Il nostro corpo, anche disfatto, è tempio dello Spirito Santo; è stato immerso nelle acque del battesimo, ma prima, e vale per tutti, proprio come Gesù, è stato immerso (battesimo significa immersione), nelle acque materne. Impossibile per Aletti non vedere in quei fagottelli Gesù-feto che già allora Dio-fatto-uomo si agitava nell’utero della sua giovanissima mamma.
I corpi sono destinati alla resurrezione, carne, ossa, muscoli, tendini. La Madonna è stata Assunta in Cielo perché il Cielo è stato nel suo utero, e poi Ella ha trattenuto questo Cielo-Cristo in ogni istante della sua vita, prima accanto a Gesù e poi a Giovanni (che siamo noi). Per questo dico che di Leo non solo l’anima ma persino il corpo ha come addosso un muschio di resurrezione, nel mentre moriva già germinava la pienezza della salvezza corporale.
Tanti si sono collegati ieri sera via zoom al Rosario detto per lui – e io credo con lui – nella residenza delle suorine di Via Martinengo, dove da sempre gratuitamente dedicava sé stesso, con la sua sapienza di ginecologo, alle donne più povere.
La cronaca di Niccolò Magnani ha ripercorso il fatto doloroso della morte e l’insegnamento che la sua testimonianza ha dato e dà. Mi pesa il non-poter-più-sentire-la-sua-voce, ma nella definizione che ha raccolto dai figli e dagli allievi c’è tutto di quest’uomo magnifico, ginecologo, difensore della vita degli altri, a costo di perdere la propria perché l’ha perduta davvero e non per modo di dire: essa, lo sappiamo bene, in quest’epoca coincide con la reputazione. Ed egli l’aveva serenamente sacrificata, facendosi tagliare la testa sul patibolo della stampa nazionale (= pensiero unico del nichilismo e del piacere effimero), accettando di essere sfigurato con l’acido muriatico ed essere trattato come fanatico, tetro oscurantista torturatore di donne, mentre è stato un grande medico e maestro.
A parte il fatto che ha voluto essere presente alla nascita dei miei primi due figli, nel 1981 e 1984, alla Clinica Mangiagalli, ne ho conosciuto la sua sua esistenza di martire, di anno in anno. Egli come sappiamo tutti è diventato famoso per essere stato prima proprio alla Mangiagalli il “defensor vitae” insieme all’amico e collega Luigi Frigerio. Denunciò non già la legge 194, ma gli abusi che venivano perpetrati aggirando persino questa legge, con aborti praticati oltre i termini previsti, e truccando lo stato di salute del piccino e/o della donna per far passare come terapeutico ciò che era in realtà eugenetico o “di comodo”. Sapeva di mettersi contro il sistema, di attirare fulmini su di sé, ma non riusciva a tacere, non ne aveva il diritto.
Ricordo nel novembre del 1984 di aver passato la giornata con lui, aspettando invano Giovanni Paolo II davanti alla Clinica Mangiagalli. Il luogo simbolo pro e contro la 194. Sperava che l’incontro e la benedizione del Vicario di Cristo in terra potesse far cadere dal cavallo dell’ideologia abortista non solo i suoi superiori che lo praticavano, ma il mondo intero, e che cadessero le scaglie di serpente dagli occhi che non vedevano che si trattava di omicidio. Lui lo chiamava proprio così, come Pier Paolo Pasolini, e come Norberto Bobbio riteneva che “sul diritto di nascita non si può transigere”. Basta la ragione, ma essa è stata anch’essa abortita. Lui però non agiva così in nome di un principio, ma perché amava quelle “creature”. Era ruvido certo, diretto.
Questo suo modo di vivere la realtà, alla Giovanna d’Arco, non era affatto un modo di non incontrare o non dialogare con chi era invece fautore e praticante degli aborti, ateo, agnostico o “diversamente credente”. Era dietro quelle porte che si commetteva quello che il Vaticano II ha definito “delitto abominevole”; che fai, sorridi, taci? C’è un equivoco che ha investito tanti cristiani: quello di ritenere che “la bellezza disarmata” voglia dire evitare di “brandire” la verità, e in tanti dinanzi alla sua veemenza pura – don Chisciotte con la lancia ma senza armatura – mutavano giudizio, non per la sua dialettica e le sue argomentazioni pur valevoli, forse per commozione e attrattiva. Cambiavano giudizi perché Aletti tirava frecce al cuore. Non è che l’attrattiva e la mitezza coincidano con il Valium. Giovanna d’Arco era in realtà disarmata e bellissima quando fu posta sul rogo. L’amore è intrepido, come disse il cardinal Federigo a don Abbondio.
Questo vorrei che ci insegnasse il suo martirio, perché martire, come disse e scrisse Hans Urs von Balthasar, è “colui che versa la vita”, amando. Lietamente.
Fonte: Renato FARINA | IlSussidiario.net