«C’era un tizio oggi sul treno. Niente cellulare. Niente tablet. Niente PC. Niente cuffiette. Stava lì seduto a guardare il panorama. Come uno psicopatico». L’esplosione virale di questo tweet, ironico e serissimo insieme, spiega meglio di tante analisi la coscienza sociale che sotto sotto si nasconde intorno all’“emergenza virtualità”. Ciò detto, per molti rimane purtroppo vero – lo scriveva Jannel Hofmann nel suo iRules. Come educare figli iperconnessi, libro-cult tradotto in Italia da Giunti – che «la trappola in cui ancora molti genitori cadono è credere che le regole educative siano cambiate perché è cambiata la tecnologia».
TUTTI ON LINE, MA NESSUNO «CONNESSO»
Ma se a casa, dove mangiare e dormire con il cellulare oramai è prassi, dove l’avere anche poche e semplici regole sugli ingombranti smartphone sembra una conquista esorbitante (non però nella Silicon Valley, dove da decenni vige la regola “No screens in the bedroom”, niente schermi in camera da letto), a scuola era sinceramente più difficile prevedere l’odierna mesta rassegnazione. Una Caporetto, una bandiera bianca alzata da presidi e docenti a spese della capacità degli studenti di costruire relazioni vive e sane (perché la posta in gioco non è altro che la felicità dei nostri ragazzi, tutti perennemente online, ma nessuno veramente connesso con l’altro).
I cellulari a scuola sono un problema da risolvere in fretta. Se la visuale è il “grandangolo” di una cattedra (come lo è per chi scrive), l’assistere impotenti – nei cambi dell’ora come durante le ricreazioni – alle schiene curve e le teste basse di venticinque studenti, i quali preferiscono perdersi in uno schermo piuttosto che a provare a scambiarsi due parole, è un’esperienza che preoccupa e inquieta.
Davanti allo “scrolling” – cioè l’ossessivo movimento del pollice sullo schermo – diventato, a casa come a scuola, del tutto automatico, impulsivo, completamente fuori da qualsiasi consapevolezza e controllo, è letteralmente impossibile non interrogarsi, specie se la letteratura scientifica ha ormai acclarato che nel rilascio della dopamina (derivante da notifiche e like) vi è lo stesso meccanismo che è alla base di ogni altra dipendenza patologica. Sia quella derivanti da sostanze, sia quella di tipo comportamentale (dalla dipendenza da internet a quella dai videogiochi, dalla dipendenza dalle serie tv a quella dei social network, dallo shopping compulsivo alla dipendenza dalla pornografia).
USCIRE «A RIVEDER LE STELLE»? MAGARI!
È incredibile che la scuola, agenzia educativa per eccellenza, la stessa che magari dedica mesi ai progetti sull’inclusione e la socializzazione, non si ponga il problema di studenti isolati, dipendenti, fondamentalmente soli. Se uno scollamento tra scuola e vita risulta ormai evidente (in tema di bullismo, diritti civili, emergenza climatica, razzismo e molto altro), rimanere inerti rispetto a chi non alza più gli occhi per godere di un creato che ha il difetto di non essere virtuale, per una scuola può significare rinunciare alla pretesa di una comprensione integrale del vero, del bene e del bello.
Rinunciare quindi al suo core business. Siamo certi che versi come «e quindi uscimmo a riveder le stelle» significhino ancora qualcosa? Si possono ancora imitare i moti interiori di quel Leopardi a cui l’eternità sovviene «mirando, interminati spazi», «sovrumani silenzi, e profondissima quiete»? Tra “stories” che bombardano e video generati a flusso continuo, i ragazzi riusciranno ancora a commuoversi per l’«Addio, monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo»? Forse sì, ce lo auguriamo, ma è certo che l’auspicio verdiano «Va, pensiero» (che per bocca degli ebrei deportati a Babilonia dava voce al desiderio di fare dell’Italia una Patria) più che «sull’ali dorate» ora è costretto a dipendere dal wi-fi.
DISINTOSSICARSI A COSTO ZERO
Tutto questo l’ha capito bene il liceo “Malpighi” di Bologna, in questi giorni sugli scudi perché artefice dell’azione più semplice (quindi educativa) che si potesse ideare intorno al tema in questione: il suo Collegio dei docenti ha deliberato il divieto dell’uso dello smartphone all’intera popolazione scolastica (studenti e docenti), inserendo la norma nel regolamento di istituto. Prima di entrare in aula, gli alunni dovranno consegnare il cellulare (verrà riconsegnato loro a fine mattinata).
Stupito dal clamore suscitato da un’azione educativa evidentemente controcorrente, Marco Ferrari, vicepreside della scuola, spiega così la scelta di mettere tutti sullo stesso piano: «Abbiamo deciso per coerenza con la decisione presa per gli alunni. A tutti capita di guardare il telefonino e di distrarsi, anche a noi professori. Io insegno filosofia e la norma, ovviamente, vale anche per me. C’è un assoluto bisogno di recuperare spazi di libertà, ormai siamo tutti dipendenti dal cellulare». Quanto al responso dei genitori, evidentemente così difficile da affrontare per la stragrande maggioranza delle scuole, il professor Ferrari aggiunge serafico: «Glielo abbiamo spiegato, quasi tutti hanno capito».
L’ENTUSIASMO DI CREPET
Interpellato dall’agenzia AGI, lo psichiatra e sociologo Paolo Crepet ha promosso a pieni voti la stretta sui cellulari del liceo bolognese, auspicando esplicitamente che «il modello Malpighi diventi un esempio nazionale», lanciando così un messaggio al futuro ministro dell’Istruzione. «Vietare i telefonini», ha affermato l’esperto, «comporta un netto calo dell’aggressività e un aumento netto di capacità cognitive, memoria e attenzione». Bypassando, poi, possibili obiezioni sulla non democraticità della scelta dell’istituto bolognese (in questi casi sempre in agguato), Crepet non solo ha affermato che «è giusto arrivare ad una soluzione un po’ più drastica», ma si è detto «totalmente d’accordo con il preside, con tutti gli insegnanti, e soprattutto felice per i ragazzi».
Per Paolo Crepet, a cui non manca il dono della chiarezza, la verità è che «i telefonini sono utilizzati anche in classe durante le lezioni perché sono una droga. Se quindi si riesce ad interrompere questa dipendenza si fa del bene ai giovani e allo studio». Come recita un affascinante proverbio africano (citato anche da Papa Francesco in occasione del Discorso al mondo della Scuola italiana del 2014) «per educare un figlio ci vuole un villaggio» (ma a volte può bastare una scuola bolognese con le idee chiare).
Fonte: Valerio Pece | IlTimone.it