«Parlare di identità europea è diventato possibile perché non abbiamo più una definizione di Europa in termini valoriali: quando non si condividono più dei valori, si ricomincia dall’identità». Una intervista a Olivier Roy
Professore, parlare di Europa è diventato complicato. La crisi dell’Unione, emersa in tutta la sua evidenza dopo il 2008, ha messo in questione l’immaginazione politica, culturale e religiosa da cui era nata.
In effetti è così. L’Europa si è costituita politicamente dopo la Seconda guerra mondiale, sulla base di valori come la democrazia, lo Stato di diritto, i diritti umani, nonché sull’idea che ci fosse una storia comune, almeno per l’Europa occidentale. E poi dopo la Cortina di ferro. Questo spazio era sostanzialmente quello del cristianesimo latino fino alla Riforma, per cui si può dire che nella visione europea ci sia una tradizione cattolica. È la Chiesa che ha inventato un sistema di istituzioni per così dire sovranazionale: non c’erano nazioni all’epoca, ma quel sistema era al di sopra dei re, dei sovrani, del feudalesimo… La Chiesa, il clero, ha inventato una burocrazia, nello specifico una burocrazia organizzata e con una libertà di movimento transnazionale: i chierici potevano muoversi e insegnare in Francia, in Italia, in Germania. C’era una gerarchia e il papato aveva pretese di carattere temporale; il che offriva, in fondo, una risposta alla frammentazione feudale. Peraltro, tra i padri fondatori dell’Europa c’erano dei cattolici ‑ Adenauer, De Gasperi, Schuman ‑ alleatisi con dei socialdemocratici. L’alleanza tra i democristiani e i socialdemocratici metteva in comune una visione sociale dello Stato, che comprendeva la Chiesa cattolica con la sua dottrina sociale, e l’idea che la politica dovesse fondarsi su valori di solidarietà e condivisione. C’era una coerenza. Ma a partire dagli anni Settanta questa visione comincia a diradarsi.
Il tema diventa l’identità europea
Sì. Anzitutto con la crisi della Dc dopo gli anni Ottanta. Poi con la crisi della socialdemocrazia, che accetta il neoliberalismo, il mercato: Mitterrand, più in là Blair, Schröder… Si rinuncia a una visione sociale e viene meno un’idea dello Stato, visto non più positivamente ma come burocrazia. Si assiste a una crisi dei valori tanto a destra quanto a sinistra, nella Dc come tra i socialdemocratici. E si va verso una riconfigurazione: una nuova destra che non si preoccupa di valori, con esponenti come Berlusconi o Sarkozy, e una sinistra che perde il suo senso del sociale. Una crisi che tocca valori condivisi da un lato all’altro dello spettro politico.
Parla di valori condivisi per evitare letture identitarie?
L’Europa non è un’identità, è un progetto politico. Un progetto politico fondato su quei valori, certo. Ma si tratta di valori condivisi. Il concetto di identità nel dibattito politico è recente, lo si vede arrivare negli anni Novanta, in particolare rispetto all’immigrazione. Prima di allora non se ne parlava. Si discuteva di un progetto politico, ci si chiedeva se l’Europa avesse un’anima, si utilizzava un vocabolario più spirituale. Non per caso in seguito si verificano una crisi dei valori condivisi e una crisi spirituale.
Il Sessantotto…
OR Se prendiamo ad esempio la Chiesa cattolica è chiaro. Una certa questione valoriale viene posta abbastanza tardi dalla Chiesa, dato che il progetto politico europeo attingeva molto dalla Dottrina sociale. È a partire dal Sessantotto che essa pone dei valori normativi intorno alla vita o alla sessualità e non più dei valori collettivi, dunque si ha una morale sessuale che si rivolge essenzialmente agli individui. Il processo culmina con due papi molto europei, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, che hanno definito l’Europa sulla base di tali valori normativi. Ed è interessante come Wojtyla proponga delle norme ma non difenda la Democrazia cristiana: il senso è che la difesa dei valori sia di competenza della Chiesa.
Resta il fatto che la Chiesa sostiene l’Europa
La Chiesa è europeista: ha un progetto per l’Europa, ma questo progetto non è sempre stato percepito allo stesso modo. La Chiesa ha constatato che la cultura europea era cambiata dopo gli anni Sessanta, il che era vero. I valori di oggi sono più individualisti, mirano alla riuscita, al successo personale. Non c’è più un progetto collettivo. Perfino la storia di gran parte dei partiti populisti mostra come agli inizi avessero una declinazione regionalista, non nazionalista: a eccezione della Francia, è stato così in Italia, in Belgio, nel Regno Unito con la Brexit. La differenza rispetto ai piccoli Paesi è la percezione della nazione in senso etnico: è il caso della Danimarca, dei Paesi Bassi…
Vorrei tornare al ruolo di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. In che modo interagiscono spiritualità e politica riguardo all’accento sui valori?
Il quadro è quello di una crisi generale. I valori della Chiesa sono valori normativi: i papi chiedono ai Parlamenti di votare o non votare delle leggi. Di fatto non si difende soltanto una spiritualità, ma si è impegnati in una lotta normativa: il caso dei valori non negoziabili. La Chiesa rientra non in conflitto, ma in tensione con gli Stati poiché non ha più legami politici come in passato, quando c’era la Dc o una destra conservatrice ispirata alla morale cristiana. Dopo il Sessantotto anche la destra accetta del tutto il paradigma dell’individualismo del piacere, se posso dire così: il successo personale, il profitto, la libertà sessuale. Pertanto, non avendo più contatti immediati, la Chiesa si confronta direttamente con la classe politica. Al punto da sembrare dissidente più che una forza propulsiva.
A pensarci bene l’Europa sta attraversando una fase della sua storia in cui il dissenso è esercitato da più parti e in modo piuttosto vocale.
La scena politica europea resta una scena nazionale, che rende possibile la comparsa di movimenti populisti che contestano i valori europei. Così è possibile che la Polonia o l’Ungheria si sentano europee ma rifiutino il liberalismo. Il consenso su questi valori è scomparso. Perché la destra populista non è una destra cristiana, tanto che il rapporto con il cattolicesimo non è uguale ovunque: c’è il sostegno di alcuni episcopati, almeno in parte, ma ci sono Paesi in cui ciò non avviene, come l’Italia, la Francia, la Spagna e la Germania. Parlare di identità europea è diventato possibile perché non abbiamo più una definizione di Europa in termini valoriali: quando non si condividono più dei valori, si ricomincia dall’identità.
Eppure capita che a Bruxelles si faccia appello ai valori europei.
Se ne parla in modo ipnotico: la democrazia, i diritti umani…
Che cosa resta, invece, delle cosiddette radici cristiane dell’Europa, inclusi i tentativi di menzionarle nel progetto di Costituzione europea?
OR Da un punto di vista storico è incontestabile che l’Europa abbia radici cristiane. Gli appelli di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI si rivolgevano a Paesi ritenuti eredi di radici che avrebbero dovuto riscoprire. Si pensi all’omelia del papa a Le Bourget nel giugno 1980: «Francia, cosa hai fatto del tuo battesimo?». In sostanza si affermava che le società non erano più cristiane, come non lo erano i loro valori. Ritornare al cristianesimo era essere fedeli a se stessi. Esso stesso era inteso come un valore. Oggi, quando la maggior parte dei movimenti populisti evoca il tema delle identità, non si riferisce a valori, tantomeno ai valori cristiani, ma a un insieme etnico-nazionale: i bianchi contro l’islam, la Padania contro il Sud Italia… Perché l’identità non è un sistema di valori. È interessante che, al momento del dibattito sulle radici cristiane dell’Europa, questo non fosse sufficiente per i cattolici. Parlare di radici era un compromesso. Il cristianesimo doveva essere l’anima dell’Europa, non solo una radice. Ma lo si sarebbe accettato in spirito di conciliazione. Anche perché nel mondo laico non ha senso parlare di radici: che cosa dovrebbe voler dire che i nostri padri erano cattolici? C’è stata anche la filosofia greca, il diritto romano… Per il mondo laico parlare di radici significava far rientrare il cristianesimo dalla finestra dopo averlo fatto uscire dalla porta. È chiaro però che Bruxelles abbia compreso che abbiamo creato un’entità politica unicamente per mezzo della burocrazia e che un sistema puramente burocratico non forma un popolo. In tal modo, a partire dalla questione dell’integrazione degli immigrati, si pone la domanda di quali valori vogliamo che condividano con noi. È il grande tema di oggi.
Si è trattato di un tentativo teologico, politico…?
È stato un tentativo di rimettere la questione del cristianesimo sulla scena pubblica. Non era teologico, perché il concetto di radice, in teologia, non dice nulla: si può parlare di eredità, di fede radicata forse.
Che cosa si può dire dell’approccio di papa Francesco al riguardo?
OR Si oppone alla pretesa dell’Europa di essere fille aînée della Chiesa. Egli la vede come uno spazio di provincia nel mondo, non come il cuore battente dell’ecclesialità. In senso più generale ha compreso che un discorso puramente normativo non funziona: sul piano etico è un conservatore, non un liberale, ma ritiene che un ragionamento essenzialmente normativo e non negoziabile occulti la vera missione della Chiesa, che è di predicazione. Si pone su una dimensione etica ed è più esitante in politica: lo si vede nel caso della guerra in Ucraina, quando parla di pace in generale ma non si schiera. E anche la diplomazia vaticana non ha lo stesso ruolo che nei conflitti precedenti. C’è una crisi del modo in cui la Chiesa vede il proprio posizionamento politico.
A cosa è dovuta?
OR I vescovi sono come bloccati tra una comunità cattolica che si irrigidisce sempre di più, i conservatori per intenderci, e una società sempre più secolarizzata. La Francia è un esempio, perché lì il cristianesimo sociale è sparito. In Italia resiste un cristianesimo sociale e popolare, che può contare anche su movimenti come Comunione e liberazione, i Focolari o Sant’Egidio. Inoltre il vescovo rimane un personaggio pubblico, mentre in Francia è perfino difficile che se ne conosca il nome. E ci sono le associazioni, i gruppi volontari… In Italia persiste una presenza sociale della Chiesa cattolica che in Francia è finita. Si assiste dunque a una contrazione dei cattolici osservanti, come li definisce il mio collega Yann Raison du Cleuziou, a cui corrisponde un ripiegamento sull’identità, sulla pratica religiosa. I gruppi conservatori sembrano essersi trasformati in un sindacato dei praticanti. C’è una Chiesa militante exculturata, che si posiziona fuori dalla società, come afferma la mia collega Danièle Hervieu-Léger. In questo quadro i vescovi non sono più dei leader. Io interpreto anche così la scelta del papa di limitare il rito tridentino della messa: è un modo per obbligare i cattolici più conservatori a territorializzarsi, a far parte di una comunità più ampia, proprio mentre essi hanno la tendenza a ghettizzarsi, come nel caso di Monasphère.
Quindi i rapporti tra l’Europa e le religioni si complicano, considerando anche la nuova presenza dell’islam.
Il problema è la secolarizzazione culturale, non quella politica o sociologica: il fatto che non esista più una cultura secolare del religioso. Non sappiamo più che cosa sia il religioso. In modo particolare in Francia, che ha una tradizione anti-religiosa risalente alla Rivoluzione. Ma anche in Paesi che non hanno conosciuto un conflitto con il religioso, semmai inter-religioso, come il Regno Unito, i Paesi scandinavi, la Germania. Tra l’altro è per questo che parliamo di «fatto religioso», a maggior ragione in Francia: perché la religione non esiste più. Parliamo del fatto per esprimere una distanza. È il modo con cui un laico comprende qualcosa che gli sta di fronte, qualcosa che non comprende ma non intende eliminare: un fatto. Così, ad esempio, in Francia è impossibile parlare di religione a scuola ma si discute di come parlare del fatto religioso. Al punto che a settembre scorso il ministero ha lanciato una campagna di promozione della laicità nelle scuole francesi senza mai nominare le espressioni «religione» o «fatto religioso». È sorprendente: insegniamo la laicità senza menzionare il religioso. E diciamo che la laicità è ciò che permette a Catherine e Aisha di fare il bagno insieme, dunque la laicità sarebbe l’anti-razzismo? Il religioso è incompreso: non stupisce che i musulmani che arrivano in Europa siano spesso trattati come fanatici, indipendentemente dal terrorismo.
Ma è lecito pensare a un sostegno europeo del religioso?
In fondo, al momento l’Europa chiede al credente di non esporsi in quanto credente. La religione va interiorizzata. Ciò è vero pressoché ovunque, anche se ci sono differenze. Ma il problema dell’Europa non è gestire il religioso o gestire l’islam, è gestire il religioso in quanto religioso.
Ciò comporta anche un’alfabetizzazione religiosa.
È necessaria. Quando gli Stati cercano di limitare il segreto confessionale dal sacramento della penitenza lo fanno perché non sanno che cos’è un sacramento. È interessante che si sviluppi l’islamologia ma non una cristianologia: studiamo ciò che percepiamo come minaccia. La creazione di un centro di studi di islamistica in Francia viene apertamente presentata come una risposta alla radicalizzazione religiosa. Mentre dire che la legge di Dio è superiore alla legge umana è percepito come sovversivo. A non essere compresa non è solo la teologia, ma l’idea stessa di ciò che il religioso rappresenta.
C’è bisogno di una comprensione del religioso sia interna, teologica, che esterna, storica, sociologica…?
Servirebbe, ma non c’è domanda. I giovani non sono interessati e i sondaggi mostrano come siano molto più tolleranti degli adulti sulla questione religiosa, ad esempio sul velo islamico. Per contro mal digeriscono il concetto di Chiesa, perché la religione è una ricerca individuale. Sono gli effetti dell’individualismo.
Grazie, professore. Ho solo un’ultima domanda, che ci permetta di chiudere il cerchio su un’Europa al centro di profondi cambiamenti. Quale Unione bisogna pensare per il futuro?
Tutto passa dalla questione culturale, ossia condividere qualcosa su questo piano, che sia l’arte, la letteratura… C’è già una comunità culturale europea. Per esempio i romanzi sono tradotti e lo sono anche le scienze umane, la filosofia… Ma le università rimangono ancora profondamente nazionali. Iniziative come l’Erasmus sono fondamentali. Bisogna puntare sui giovani e sulla circolazione, anche linguistica: il multilinguismo è una risorsa, per cui non ci si deve accontentare di passare a un inglese semplificato per facilitare la comunicazione. Bisogna puntare sulla cultura e sugli scambi. L’Europa non deve essere un’efficiente burocrazia, ma qualcosa di desiderabile. Ciò che paradossalmente ci riporta a un immaginario europeo è la guerra in Ucraina, vale a dire il fatto di essere solidali. Perché questa solidarietà? Il motivo va rintracciato nel fatto che abbiamo qualcosa in comune. Percepiamo l’Ucraina come un Paese democratico, liberale, dove c’è libertà religiosa. Se la Russia avesse attaccato un Paese totalitario non ci sarebbe importato così tanto. Ma in una crisi ci accorgiamo di avere qualcosa in comune, quindi qualcosa da difendere.
Fonte: OLIVIER ROY, intervistato da ANTONIO BALLARÓ | Rivistailmulino.it