Con l’aiuto della maternità surrogata ho salvato la mia famiglia». La donna che parla sotto anonimato al New York Times ha 30 anni, e se si trova con la sua famiglia a Kiev e non a Melitopol, nell’Ucraina meridionale occupata dalla Russia, è merito del suo datore di lavoro: un’agenzia che le ha trovato un appartamento nella capitale per garantire la sua sicurezza e quella del bambino che porta in grembo. Un bambino prezioso da consegnare dopo il parto, e poi? Viktoria, un’altra mamma che ha lasciato Kharkiv è contentissima di essere “al sicuro”, «Non me ne sarei andata se la clinica non mi avesse convinto», ma come spiega al quotidiano «non è affatto chiaro» dove finirà una volta che si sarà ripresa dal cesareo programmato e avrà consegnato il bambino alla coppia di “genitori biologici” cinesi.
«La guerra non ha sminuito il fascino della surrogata»
Da giorni Kiev è sotto attacco, le stazioni della metropolitana sono state riadibite a rifugi, cadono i missili, e il New York Times pubblica un surreale reportage con le interviste ai vertici della Biotexcom, colosso dell’utero in affitto in Ucraina. «Non abbiamo perso nessuno», «Siamo riusciti a far uscire tutte le nostre madri surrogate dall’occupazione e dai bombardamenti», ad agosto tutti i bambini del bunker «erano tornati a casa» e dall’inizio di giugno «l’azienda ha iniziato almeno 15 gravidanze», «La guerra non ha sminuito il fascino della maternità surrogata per le coppie disperate di avere figli», «Hanno fretta. Spiegare “Abbiamo una guerra in corso” non funziona».
Lo storytelling nella capitale europea dell’utero in affitto – perché di questo si tratta, imborghesire e normalizzare la compravendita di bambini e la messa a reddito della vita umana – è cambiato. I lampadari di cristallo e gli orsacchiotti dell’hotel Venezia, l’hotel stellato dove 46 neonati, giuridicamente figli di nessuno e agghindati come balocchi, aspettavano a maggio 2020 che ai committenti venisse accordato un permesso speciale in deroga alle regole del lockdown per il ritiro, hanno lasciato il posto a febbraio alle luci a neon e i fornelletti a gas di un bunker malandato arredato a mo’ di supermercato sotto terra.
I viaggi in auto «per non interrompere le consegne»
La pandemia aveva intralciato il commercio incontrollato dei bambini e alla Biotexcom si accendevano le telecamere, «I vostri bambini sono monitorati giorno e notte dalle nostre babysitter nella stanza materna. Ogni giorno le tate passeggiano con loro all’aria aperta e li lavano», la guerra scoppiava in Ucraina e dalle stesse telecamere si rassicurava l’Occidente attento alla protezione del suo mercato, «qui ci sono tutti i comfort, non possiamo fornirvi un servizio vip, una cucina da chef e letti morbidi, ma possiamo garantirvi la sicurezza in qualsiasi situazione».
Poi, l’eroismo: per settimane i giornali hanno documentato quello delle coppie americane ed europee che «hanno rischiato la vita» per recuperare i figli commissionati, nonché quello delle surrogate che «hanno rischiato la vita» per consegnare questi bambini. Sullo sfondo, gravidanze portate avanti in scantinati, bombe, posti di blocco, parti in emergenza, viaggi in auto «per non interrompere le consegne», una copertura mediatica tutta foto ai pargoletti e passaggi di port enfant tra lacrime e applausi per trasfigurare in desiderio un’ossessione: ritirare la merce, liquidare la madre usa e getta.
Surrogata non per amore o libera scelta, ma per denaro
E ancora, il denaro. Dello storytelling progressista intorno alla scelta libera, amorosa, consapevole che aveva dato vita ai neonati stoccati nei bunker di Kiev all’inizio dell’invasione, non era rimasto che questo dopo sei mesi di guerra: un mercato più agile, un processo di “ritiro” dei figli più rapido, semplice ed economico e neanche lo sforzo di infiocchettarlo: «Le madri surrogate hanno semplicemente bisogno di soldi», spiegano candidamente le cliniche, «Mi servono soldi per comprare una casa per me e mio figlio», «Lo faccio per soldi, perché no? Godo di buona salute e posso aiutare le persone che hanno soldi e vogliono figli». Infine, il pezzo del New York Times che chiude il cerchio: la surrogata salva la vita.
«Con l’aiuto della maternità surrogata ho salvato la mia famiglia», «la guerra ha reso più urgente il bisogno di sicurezza economica»: le surrogate come Viktoria assicurano di esser motivate «dal denaro, dall’amore per i propri figli e dal desiderio di tenerli al sicuro». Con i soldi della Biotexcom hanno potuto essere «trasferite dalle città in prima linea e dalle regioni occupate dalla Russia a luoghi più sicuri, come Kiev», «la vita nell’Ucraina occidentale e centrale si è ampiamente stabilizzata nonostante i combattimenti nelle regioni meridionali e orientali e i continui rischi di attacchi missilistici a lungo raggio», spiega il Nyt con le immancabili fotografie: non più eleganti lampadari, cullette trasparenti e copertine pastello, emblema di una generosa libertà ed espressione di tanta autodeterminazione adulta, consapevole e consenziente; non più freddi neon, plaid di ogni forma e colore ad avviluppare in cuccette da accampamento i bambini nel bunker.
Non più bimbi, ma “consegne” da fare ai “clienti”
Non c’è l’eleganza, l’eroismo, c’è la fotografia della surrogata che salva la vita e le famiglie: ci sono i figli biologici delle surrogate che giocano con camion o fanno le bolle di sapone fuori dalla clinica, ci sono i medici in sala parto, le mamme in coda per gli esami. C’è la figlioletta della signora Burkovska sdraiata sullo stesso copriletto tigrato sul quale ma mamma adagia bambini di ogni dimensione per mandare le foto ai loro genitori: Burkovska è proprietaria di una piccola agenzia e nei primi mesi di guerra si è trovata in casa sette neonati, ritirati in ospedale dalle surrogate dopo il parto e custoditi nella sua abitazione fino all’arrivo dei genitori biologici.