Le feste creano una fessura nel tempo uniforme degli orologi (kronos) perché entri l’eternità, cioè il tempo che non trascorre ma resta come memoria sempre viva: la chiacchierata con un amico senza la paura di piangere, l’inautunnarsi degli alberi in una passeggiata in montagna, il sorriso di una ragazza malata per delle parole a lei rivolte. Il quotidiano nella sua ripetitività cronologica ha bisogno di essere salvato da «eventi» che lo rendono reale, eventi che sin dalle origini dell’uomo erano realizzati da riti, durante i quali si cercava di toccare l’origine di tutte le cose attingendo alla vita degli dei che le avevano fatte. L’uomo ha un bisogno fisico di ricevere ciò che dà energia al suo essere e il sacro è sempre stata la via d’accesso. Cambiano le forme, ma noi votiamo la nostra esistenza sempre e comunque a qualcosa che riteniamo capace di liberarci dalla morte e che rendiamo sacro: carriera, figli, successo, piacere, Dio…
Il tempo degli orologi, dalle clessidre ai cronografi, dice che moriremo, e così, lottando con lancette (l’uso di un’arma come metafora del tempo mi ha sempre colpito) o granelli (polvere sei e polvere tornerai), andiamo a caccia di una sospensione che percepiamo sacra, perché sacro è tutto ciò che è sottratto e ci sottrae alla morte. Domani è la festa-memoria dei Santi e dopodomani, non a caso, quella dei Morti. Santi e Morti, cielo e terra, e noi in mezzo a chiederci: quale è il mio destino? L’eterna vita o l’eterno nulla?
Quel che resta della risposta è Halloween, un brivido di horror e zucche, anche se la parola, come sempre, dice molto di più: contrazione dell’espressione «all hallows’eve»: vigilia/notte di tutti i Santi. Hallow è l’antico verbo inglese per santificare, da cui holy (santo) ed health (salute): la nostra salute dipende dalla nostra santità (santo vuol dire in origine intoccabile, inviolabile, perché appartenente al divino), perché ciò che è santo non muore, è nel tempo ma non gli è soggetto.
Morti e Santi sono associati perché sono i due punti di vista sulla morte: il tempo e l’eterno. Tutti sappiamo nella nostra carne che il primo (e ogni) lutto è un evento indimenticabile, il primo vero incontro con quello che Freud, sulla scia di Schopenhauer, chiamava l’impensabile, la morte, proprio perché, non potendo essere controllata e quindi razionalizzata, agisce su di noi più di qualunque altra realtà. Infatti noi ci muoviamo ogni giorno per esorcizzare la morte, inventando modi di vincerla, cioè di farci santi, in base a ciò che pensiamo possa darci eternità: tutti stratagemmi di sospensione del tempo. Eppure non tutte le forme di santità danno la salute, anzi alcune ce la tolgono. Il divino Achille scelse di morire giovane ma glorioso in guerra (l’eroe è il santo), Budda abbandona il potere e muore a ogni desiderio umano (il monaco è il santo), Socrate si lascia imporre il suicidio pur di non commettere un’ingiustizia (il giusto è il santo), Cristo si dona agli uomini e li perdona, affidandosi al Padre, sebbene sia innocente (l’amante è il santo).
E noi? I santi oggi sono gli sportivi (Ibra è un dio), le star (Monroe era la divina), gli inventori (Jobs era divino nelle sue apparizioni), i manager (Elon Musk è un profeta)…
Non c’è nessuno che non abbia, anche solo implicitamente, una strategia contro la (propria) morte, e la cultura (l’insieme delle invenzioni umane per vivere) non è altro che la risposta creativa dell’uomo a questo abisso. Qualche anno fa il medico americano Raymond Moody ha cominciato a raccogliere le testimonianze di pazienti che hanno vissuto le cosiddette esperienze di pre-morte. Mi servo di queste testimonianze come fenomeni psichici, cioè come simboli che la psiche usa quando si trova in quella condizione che nella tradizione del buddismo tibetano viene chiamata «bardo», uno stato intermedio tra la vita e la morte. Le testimonianze hanno in comune delle costanti, oltre a quella di tornare in vita per poterle raccontare. I sospesi tra morte e vita vedono ciò che accade al loro corpo esanime, guardandolo da fuori, e contemporaneamente camminano in un tunnel oscuro con una luce in fondo. Prima di raggiungere questa uscita incontrano un essere luminoso di fronte al quale giudicano la propria vita. Questo essere non suscita nessun senso di colpa, ma permette di guardare se stessi in uno specchio d’amore e di verità.
Il sospeso si sente porre una domanda (o la pone a se stesso perché non è fatta di parole): ne è valsa la pena?
Gli ambiti di verifica della risposta sono due: il conoscere e l’amare, cioè se la vita sia stata un cammino di sapienza (conoscenza di sé e del mondo) e un cammino di fecondità (amore di sé e degli altri). Poi a questa persona viene data la possibilità di riprendere il cammino, diventando protagonisti della vita rimanente. La totalità di loro dice che, tornati, si sono liberati dell’ansia di cammini falsi, per dedicarsi solo a ciò che finalmente gli si era chiarito: sono esperienze di verità (la morte è la verità ultima su chi siamo) attraverso cui si abbraccia il cammino della santità (ciò che vince la morte). Sapienza e Amore sono le risposte al “ne è valsa la pena?”, cioè la fatica che il vivere comporta è riscattata da una pienezza di senso che noi sperimentiamo quando «conosciamo» e «amiamo», che poi sono i due lati di uno stesso gesto vitale.
1. Un conoscere che non è «informarsi» ma entrare in relazione con il mondo e con gli altri in modo generativo. Conoscere nel lessico ebraico significa unirsi, Adamo conosce Eva e genera un figlio, Maria visitata dall’angelo risponde: non conosco uomo. Oggi riduciamo il conoscere all’acquisizione di informazioni (i dati sostituiscono la vita) o alla pratica scientifica (l’esperimento sostituisce l’esperienza, ciò che riesco e posso fare è vero), quindi al dominare la cosa conosciuta che smette di essere soggetto con cui entro in contatto e viene ridotto a oggetto. Il conoscere di cui parlo è invece un co-nascere: nascere insieme di due soggetti in un soggetto nuovo: generato. Come quando leggiamo un libro che spacca il ghiaccio del cuore e ci genera a vita nuova, come quando Dante incontra Beatrice e comincia la Vita Nuova…
2. L’amare delle esperienze pre-morte è altrettanto concreto: una delle testimonianze riguarda un uomo che dice alla presenza luminosa che non può lasciare sua moglie da sola con il figlio adottato che è appena entrato in adolescenza. Il suo destino è chiaro e tutto il resto è funzionale a questo. Nel 2017 George Saunders ha scritto un romanzo intitolato Lincoln nel Bardo, in cui descrive lo strazio del Presidente degli Stati Uniti per la perdita del figlio piccolo, Willie, a causa di una malattia. Egli si ribella al lutto tanto da «trattenere» il figlio nel Bardo, la condizione incerta tra vita e morte, aggirandosi nel cimitero di Georgetown. Lincoln vorrebbe «altro tempo» per amare suo figlio. Il vale la pena nell’ambito dell’amare è prendersi cura di ciò che abbiamo accanto come occasione che ci è data nel tempo per essere santi, cioè vivere una vita piena di senso: amare fa crescere noi e chi ci è affidato. Il tornare nel tempo degli orologi vale la pena solo se quel tempo è riempito da queste due dimensioni: conoscere e amare.
Per questo motivo posso dire che, se da un lato ho una gran paura di morire (le sofferenze che la morte può comportare), non ho paura della morte, perché alla domanda «ne è valsa la pena?», in questo preciso istante posso rispondere: sì. Nei limiti dei miei limiti non ho mai rinunciato a pormi domande scomode e a cercare risposte, a lottare contro la pigrizia mentale e fisica con una creatività innamorata, a provare ad amare chi ho accanto anche se non ci riesco, ma sperimento che non smettere di provare è già santità. L’altro giorno mia nipote, quasi cinquenne, tutta soddisfatta dopo aver portato a termine un compito impegnativo ha detto a mia sorella: «Tutto è difficile, prima di diventare facile». Può sembrare scontato, ma in realtà è un trattato sulla santità. Infatti alla domanda: «In che senso?», lei ha risposto: «Ci provi, ci provi, ci provi e alla fine ci riesci», cioè «alla fine» è valsa la pena di vivere, che non è certo morire, ma diventare sempre-vivi, cioè santi, nel tempo scandito dai nostri orologi.
Santi e Morti, insieme, ci chiedono questo: ne vale la pena?
Fonte: Alessandro D’AVENIA | Corriere.it