La “scuola uniforme e uguale per tutti” ha fallito, perché non valorizza le capacità e abbandona i meno bravi. Occorre invece tenere insieme il merito e l’inclusione
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La vita della scuola si svolge intorno a due principali poli: riconoscere e potenziare le capacità degli alunni e sostenere quanti, per varie ragioni, fanno più fatica a studiare e a imparare. Merito e inclusione non sono l’uno contro l’altro, ma sono i due piatti della giustizia educativa. Quando questo delicato equilibrio viene meno ne derivano conseguenze negative: se si esalta il merito si finisce per pensare alla scuola dei migliori; se si dà troppa corda alle pratiche inclusive, la scuola perde tono e, nei casi estremi, rischia di finire in un piatto assistenzialismo.
Per molto tempo – almeno fino agli anni ’60 – la scuola italiana si è ispirata al principio del merito sulla scia della riforma scolastica del 1923 (ministro Gentile), che intendeva premiare con un accorto sistema di severi esami quanti disponevano delle migliori qualità intellettuali. Lo scopo della scuola era cioè individuato nella ricerca dei più bravi.
La convinzione di Gentile era tipicamente liberal-borghese (più che fascista come superficialmente ed erroneamente si è a lungo creduto e qualcuno crede ancora): le fortune dell’Italia erano legate alla capacità della scuola di selezionare i migliori fin dalle prime classi delle scuole elementari in modo da creare un manipolo di persone colte ed esperte – il ceto dirigente – cui affidare le sorti dell’Italia.
Lo sforzo richiesto per competere con gli altri era concepito anche come un esercizio etico, perché alle qualità cognitive si associassero il rigore morale, l’onestà professionale, la lealtà verso i doveri civici.
Tutti gli altri alunni erano precocemente espulsi dallo studio, avviati al lavoro o, nel migliore dei casi – quando la pressione dei ceti popolari verso la scolarizzazione si fece più forte (a partire dagli anni ’30-’40) – orientati alla frequenza delle scuole professionali. Era diffusa la convinzione che il titolo di studio, specie se liceale e universitario, riflettesse la caratteristica anche morale della persona e assicurasse un posto di rilievo nella vita lavorativa. Da qui i crescenti sforzi del ceto piccolo borghese e operaio di far studiare i figli per assicurare loro un futuro migliore.
Questo ben oliato meccanismo costruito sulla logica meritocratica era viziato dalla semplice ragione che “gli allievi non scelgono i loro genitori né quanto ricevono in eredità. I giudizi scolastici rischiano di convalidare disuguaglianze di cui gli alunni non sono responsabili, ma vittime” (M. Duru Bellat, L’inflation scolaire).
L’avvento della cosiddetta “scuola di massa” (aperta a tutti e di più ampia durata rispetto alla alfabetizzazione elementare) ha profondamente rimescolato le carte e ha messo in crisi la centralità dell’obiettivo di ricercare i migliori, affidandosi ad un’altra visione dell’istruzione. Non più una scala attraverso cui conquistare posizioni più gratificanti nella società (anche se questa finalità non viene e non può venire esclusa), ma un diritto proprio della persona di veder riconosciuta la propria dignità e assicurarne il pieno sviluppo: alla selezione si oppone la promozione di tutte le potenzialità e qualità umane, il diritto all’istruzione amplia in tal modo il proprio raggio d’azione.
Questa nuova prospettiva della scuola ha gradualmente preso fisionomia dagli anni ’70 dietro la spallata della protesta sessantottina, degli studi condotti sul rapporto tra ineguaglianze sociali e cattivi risultati scolastici, alcune provocatorie scelte di gruppi di docenti molto ideologizzati (la stagione del “sei” politico), alcuni provvedimenti legislativi (ad esempio, l’inclusione degli alunni portatori di handicap nella vita scolastica normale) e altro ancora. Fino agli ’90 l’idea di scuola non selettiva fu associata alla convinzione che si dovessero assicurare a tutti le medesime opportunità. Questa affermazione si basava sul presupposto che trattare le persone in modo differenziato o valorizzarne il merito significasse rischiare una inammissibile discriminazione.
Un po’ superficialmente si riteneva che, favorendo la frequenza scolastica e prolungando i tempi dell’obbligo d’istruzione e della durata della giornata scolastica (tempo pieno), si sarebbero attenuate le differenze legate alle diverse condizioni di partenza. Questa visione standardizzata dell’egualitarismo scolastico ha ben presto mostrato i suoi limiti senza essere in grado di raggiungere gli scopi prefissati: “le politiche scolastiche che si proponevano di combattere le disuguaglianze sociali mediante l’incremento dell’istruzione hanno fallito il loro bersaglio. La scuola non ce la fa a correggerle” (N. Bottani, Requiem per la scuola?).
Molta dispersione e tanta mediocre preparazione confinano tuttora gli alunni socialmente più deboli ai margini della vita sociale e produttiva e, al tempo stesso, non si può negare che il perseguimento dell’egualitarismo a tappe forzate abbia finito per dimenticare di riconoscere anche l’importanza motivante del merito.
Oggi lo scopo dell’orizzonte formativo è – o dovrebbe essere, almeno in prospettiva – quello dell’equità scolastica e cioè di un sistema capace di tener insieme merito e inclusione, valorizzazione dei migliori e impegno a non lasciare indietro nessuno, coltivare le intelligenze brillanti e aiutare chi fa più fatica a studiare.
Cosa può fare, dunque, la scuola? Tenere conto della diversità dei punti di partenza, delle aspettative personali, della varietà delle opportunità formative anche esterne alla scuola come apprendistato e formazione professionale, lasciando alle politiche sociali il compito e la responsabilità di contenere le diseguaglianze originarie.
Il principio della “scuola uniforme e uguale per tutti” va sostituito con il principio della “scuola per ciascuno”, ispirata al riconoscimento delle specifiche capacità e propensioni individuali. Le strategie pedagogiche della “personalizzazione” basate sul rispetto delle caratteristiche di ognuno e sul potenziamento delle diversità dei singoli costituiscono una buona traccia per sfuggire all’illusione che l’omologazione a uno standard prefissato sia sinonimo di equità. Non si può caricare la scuola di responsabilità che riguardano le scelte politico-sociali e l’idea stessa di “società equa” non pò coincidere con quello di “società livellata su un unico standard”.
Per le ragioni sommariamente espresse forse sarebbe stato più opportuno intitolare il dicastero che guida la formazione dei cittadini italiani Ministero dell’Istruzione e dell’equità scolastica.
Fonte: Giorgio CHIOSSO | IlSussidiario.net