Se non sei ancora maggiorenne – riflette Alberto Pellai in un post su Facebook -, fare sport dovrebbe essere una delle molte esperienze formative e divertenti allo stesso tempo cui ti dedichi. Non dovrebbe essere un mestiere
Se non sei ancora maggiorenne – riflette Alberto Pellai in un post su Facebook -, fare sport dovrebbe essere una delle molte esperienze formative e divertenti allo stesso tempo cui ti dedichi. Non dovrebbe essere un mestiere e non dovrebbe spingere a trovarti all’interno di un sistema che ti porta, prestissimo, a gareggiare ai più alti livelli agonistici, su scala internazionale.
Se sei un allenatore di potenziali futuri campioni il tuo sguardo, su di loro, dovrebbe concentrarsi sul loro essere “soggetti in formazione”, da accompagnare per un tratto di crescita, all’interno di un’esperienza specifica sapendo che per molti dei ragazzi e ragazze con cui lavori ciò che fai rimarrà un’esperienza e non il “progetto di vita” cui dedicarsi al 100%. Troppo spesso, in uno sport che ha precocizzato e accelerato sempre più le carriere dei giovani atleti, il sistema – di fronte ad adolescenti promettenti – non vede più le persone, ma le medaglie. E se una persona assume valore non per quello che è, ma per quello che vince, tutto diventa lecito.
I corpi possono essere dimagriti oltre il limite del consentito e del benessere, le umiliazioni possono essere usate come metodo educativo per fare della tua vulnerabilità un elemento di controllo e manipolazione psicologica. E poi, la squadra può essere trasformata in branco: tutti contro tutti, perché solo uno di voi avrà dritto alla medaglia e se volete essere “quello/a con la medaglia” allora vale tutto, senza esclusione di colpi.
Il problema è trasformare lo sport in un percorso ultra-agonistico e professionistico sulla pelle di giovanissimi che ancora si stanno individuando. È mettere la logica del campione davanti alla logica della persona. È trasformare la vittoria in “tu sei tutto” e la sconfitta in “tu sei niente”. Le offese, gli abusi, le umiliazioni, i soprusi di cui la cronaca ci sta parlando in queste settimane all’interno di alcune pratiche sportive sono un epifenomeno di qualcosa di più profondo che riguarda tutti noi. Non sappiamo più rispettare i tempi e i bisogni di chi cresce. Vogliamo che a 14 anni i preadolescenti performino come adulti, mentre a quelli che hanno 25 anni non siamo in grado di offrire un posto di lavoro dignitoso, nonostante si siano preparati per poterne avere diritto. Vorremmo solo avere ragazzi che diventano campioni in tempo record, costi quel che costi.
Simone Biles alle ultime Olimpiadi ci ha mostrato che cosa significa non essere più in grado di reggere la pressione che ti chiede di essere solo un campione e non ti permette di essere anche persona. Si deve prima crescere come persone per poi essere grandi campioni. Invertire questa sequenza è molto, molto pericoloso. Forse vale la pena che noi genitori impariamo a vedere le cose con nuovi sguardi. Il dibattito è aperto.
Fonte: Alberto PELLAI | FamigliaCristiana.it