«Sei stata una delusione, non hai ascoltato un secondo, hai sempre la testa tra le nuvole». Così una madre rimprovera la figlia di 5 anni dopo una lezione sportiva. La bimba tra le lacrime risponde che glielo dice sempre ma che non è vero. La mamma allora le ripete le stesse parole in tono più alto.
Un professore formula l’appello, uno dei ragazzi risponde con un «presente» flebile. Il professore si infuria, indirizza parole sprezzanti al ragazzo e a chiunque altro cerchi di intervenire.
Queste due scene mi sono state raccontate la scorsa settimana.
Non giudico il merito di situazioni che non conosco, ma vorrei soffermarmi sull’effetto delle parole usate che è sicuramente opposto a quello che si vorrebbe ottenere (risvegliare l’interlocutore e farlo reagire).
L’uomo è un «essere di parola» sin dalle origini. Gli studi più recenti sull’Homo sapiens e sul perché sia l’unico sopravvissuto alle altre specie di Homo, ci offrono due spiegazioni, la prima, di cui ho parlato qualche settimana fa, consiste nel fatto che il Sapiens di fronte all’ignoto è propenso al rischio e all’avventura, la seconda (strettamente collegata) è il sorprendente sviluppo del pensiero simbolico e del linguaggio. Perché questo ci ha fatto sopravvivere e da questo dipende ancora oggi la nostra sopravvivenza?
I migliori paleoantropologi (Dunbar, Bickerton, Lieberman, Tattersall, Horan) sostengono che la cosiddetta «discesa della laringe», evidente nei ritrovamenti fossili, ha reso possibile alle corde vocali di modulare la voce in linguaggio articolato (poter dire qualsiasi cosa) e non solo emettere versi (codice di segnali fisso).
Questo ha consentito:
1. il «verbal grooming», toeletta verbale, cioè il Sapiens fa il grooming che è proprio di tutti i mammiferi (sono le operazioni di pulizia reciproca, soprattutto madre-figlio) con le parole;
2. il pensiero simbolico, infatti i reperti di pietre disegnate e di conchiglie forate per collane e ornamenti, mostrano la capacità di dare significato alle cose grazie a un sistema culturale aperto e non fisso come per gli animali (messaggi univoci).
I due elementi, interdipendenti e misteriosi nel loro apparire, sono stati cruciali per dare al Sapiens un vantaggio evolutivo rispetto alle altre specie di Homo estinte: oltre a essere più propenso al rischio, usava le parole per raccontare e curare.
La parola è la prima e principale tecnologia veramente umana: permette di dare/togliere senso alle cose e di curare/distruggere. L’espressione latina «verba volant scripta manent» (le parole volano, le cose scritte rimangono) significava il contrario di ciò che oggi intendiamo noi (mettere nero su bianco, carta canta…), indicava infatti che la voce può raggiungere il bersaglio, mentre lo scritto rimane inchiodato al supporto.
Omero chiamava «alate» le parole ben dette, paragonandole a frecce con le alette che ne garantiscono la traiettoria.
Le parole creano la realtà e curano i corpi. Come? Risponde Fabrizio Benedetti, medico fisiologo e neuroscienziato noto a livello mondiale per gli studi sull’effetto placebo (farmaci inerti che ottengono effetti curativi), nel bel libro La speranza è un farmaco: «Il malato spera più di ogni altro. La speranza può essere indotta dalle persone vicine così come da chi cura. Sono le parole il mezzo più importante per infondere speranza: parole di conforto, fiducia, motivazione. Oggi la scienza ci dice che le parole sono delle potenti frecce che colpiscono precisi bersagli nel cervello, e questi bersagli sono gli stessi dei farmaci che la medicina usa nella routine clinica. Le parole innescano gli stessi meccanismi dei farmaci, e in questo modo si trasformano da suoni e simboli in armi che modificano il cervello e il corpo di chi soffre. Recenti scoperte lo dimostrano: le parole attivano le stesse vie biochimiche di farmaci come la morfina e l’aspirina, ma visto che nel corso dell’evoluzione sono nate prima le parole e poi i farmaci, è più corretto dire che i farmaci attivano gli stessi meccanismi delle parole.
Ma le parole possono fare anche male. Possono essere tossiche e produrre danni, così come i farmaci. Possono indurre ansia, depressione, sconforto, quindi il loro uso deve essere ponderato, per evitare che una malattia già di per sé invalidante venga aggravata da parole avventate e spropositate. Le parole possono guarire. Ma le parole possono anche uccidere. E tutto ciò avviene con effetti, meccanismi e azioni simili ai farmaci. La scienza oggi descrive così la speranza, cioè come un’entità concreta che ha il potere e la forza di modificare il cervello e l’intero organismo. Parole, speranza e farmaci inducono effetti simili con meccanismi simili».
Non è un bene il rarefarsi delle cure casalinghe del medico di base: consulti telefonici e ricette online, senza presenza e parole di cura, al corpo non bastano. Insomma il Sapiens sopravvive, ma soprattutto vive (riceve più vita) attraverso le storie e il verbal grooming: in casa, a scuola, a lavoro…
Ho visto rifiorire ragazzi ignorati o disprezzati, quando ricevono parole di speranza/cura, a partire da come si pronuncia il loro nome all’appello mattutino. Il loro cervello-corpo si trasforma perché la loro incapacità era solo una nostra povertà narrativa e verbale. Essere Sapiens è e ha un «essere di parola»: la parola gli dà vita o gliela toglie, dà alla luce o al buio.
Forse quella madre e quel professore mancano di parole generative perché non ne hanno ricevute o non ne ricevono. A noi la scelta di quali storie/parole usare, oggi stesso, per far crescere o regredire chi ci è affidato. Sostituiamo silenzi feriti o parole avvelenate con «ti amo», «sei bello/a», «sono fiero di te», parole che fanno accadere ciò che dicono, parole-farmaco che guariscono e danno il coraggio di vivere!
In una recente intervista Franco Baresi, glorioso libero del Milan, confidava che dice «ti amo» alla moglie tutti i giorni: «Non passa giorno senza che io glielo ricordi. Se un giorno mi passa di mente, quello successivo mi affretto a ricordarglielo». E il grande linguista Roland Barthes aggiungerebbe che quando qualcuno ti dice «ti amo», la risposta adeguata non è «anche io», ma «ti amo anche io» perché è il verbo a fare la differenza: solo quando la parola impegna tutto l’essere fa accadere ciò che dice. Persino l’amore.
Fonte: Alessandro D’AVENIA | Corriere.it