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Il grande perché che resta domanda

Hai visto Sergio, la Rai continua a riproporre alcune tra le tue inchieste più belle. Davvero irripetibili.
Dopo la “Notte della Repubblica”, “Diario di un cronista” e “Clausura”, l’altra sera hanno mandato in onda diverse puntate di “Credere, non credere”.

Mentre le guardavo, ho pensato che sei stato davvero coraggioso ad affrontare un tema così delicato in una trasmissione televisiva che, se ricordo bene, andava anche in prima serata

Che cosa ti spinse a farlo?

«La consapevolezza di un diffuso ritorno della religiosità. Le ideologie avevano fatto il loro tempo. Usate. Abusate e perciò stesso logore, stavano lasciando il posto a un crescente bisogno di Dio. Bastava guardarsi intorno per capire che l’umanità era sempre più alla ricerca di sicurezze. La realtà visibile aveva dato prove deludenti. C’era in giro un vuoto che andava colmandosi con un recupero della vita interiore. D’altra parte, quelli erano gli anni del boom del volontariato, dei raduni giovanili nel nome di Cristo. Ne ebbi la conferma quando in redazione arrivarono montagne di lettere di telespettatori entusiasti. La trasmissione aveva fatto centro perché era riuscita a entrare in sintonia con una ritornante attitudine ad approfondire le questioni cruciali dell’esistenza. Non ero partito con l’idea di aspirare ai grandi numeri. Anche se l’ascolto fu stupefacente: quasi tre milioni di persone».

Scrittori, filosofi, uomini di chiesa, scienziati, per “Credere, non Credere” ne hai intervistati tanti. Non avresti mai pensato che… «…Montanelli mi dicesse: “Considero il Creato un grande mistero. La scienza potrà svelarcelo limitatamente al come le cose avvennero. Ma non potrà mai dirci perché avvennero: questa risposta appartiene solo alle religioni”. Poi mi confessò: “Mi sento minorato per la mancanza di fede, cercata e non trovata. Toglie alla mia vita, ora che sono al rendiconto finale, ogni senso. Se è per chiudere gli occhi senza sapere da dove vengo, dove vado e cosa sono venuto a fare qui, tanto valeva non aprirli”».

Rifaresti “Credere non credere” nell’era dei social, tra foreste di app religiose e liturgie in streaming?

«Proprio no. Vorrei invece, prima di passare a miglior vita, aggiungere ancora un’inchiesta, un capitolo finale per tutte quelle che ho fatto. Sai Ale, ho già pensato anche al titolo. Mi piacerebbe chiamarla “Perché?” e affrontare i grandi quesiti dell’umanità. Mi immagino in giro per il mondo a raccogliere materiale sulla vita, la pace, la guerra e la religione. Sì la religione e la fede. Proprio loro, nate dalla parola amore, ma troppo spesso sopraffatte dalla violenza di migliaia di conflitti disastrosi. Ecco: perché – chiederei – non si riesce a conciliare l’idea dell’amore con la testimonianza quotidiana dell’esatto contrario regolato da una spirale incontrollabile di violenza così ostinatamente insita nell’essere umano? Ma è pur vero che dolore non è sopportare compiaciuti il proprio martirio, non è il peso della croce solitaria e soave; dolore è cercare l’altra mano, prenderne la solitudine e trasformarla in un debito comune».

Fonte: Alessandra Zavoli | Avvenire.it

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