Un’amicizia cominciata con uno sgambetto. Mi trovavo nello spogliatoio del centro sportivo che frequento e un uomo vestito di tutto punto era fermo immobile, in piedi. Con uno sguardo fragile ma coraggioso, mi ha chiesto con parole non del tutto chiare: «Puoi mettere un piede davanti ai miei?». Poiché non avevo capito, me lo sono fatto ripetere. Mi sono fidato e ho fatto quanto mi chiedeva, e così è riuscito a sollevare la gamba e scavalcare l’ostacolo che gli avevo posto davanti, riuscendo a fare il passo.
Non era una burla, quel gesto era necessario a un uomo affetto da Parkinson: il cervello, per obbligare la gamba a sollevarsi, a volte ha bisogno di vedere un ostacolo. Il gesto però non mi era nuovo: quando ero bambino lo vedevo fare con mio nonno che, per il Parkinson, non camminava né parlava quasi più. Per quella malattia che lo aveva costretto sulla sedia a rotelle, non ho mai potuto fare una passeggiata con lui, sentirgli raccontare le storie dei nonni, ascoltarlo cantare e suonare come amava fare… Dopo l’episodio dello spogliatoio, tra me e l’uomo che mi aveva chiesto aiuto per fare un passo, è nata un’amicizia inattesa. Ecco perché.
Il Parkinson, diagnosticato a 45 anni, lo ha costretto dopo qualche anno a lasciare una professione fiorente e a doversi tenere attivo con la piscina. Nei nostri rapidi incontri in spogliatoio abbiamo approfondito la conoscenza e quasi subito mi ha invitato a cena.
Sono stato accolto con grande affetto dalla sua famiglia, in una cena tanto buona quanto divertente e intima: nessun ghiaccio da rompere, si era già sciolto tutto… Non c’era tempo per finzioni o maschere: la fragilità denuda e vuole subito autenticità. Mi ha presto confidato che mi aveva invitato perché, quando mi ha chiesto aiuto con quel finto sgambetto, io non avevo reagito come altri che si erano spaventati e allontanati.
Quando vado a casa di qualcuno indago sempre nella libreria e gli ho chiesto come mai avesse tante biografie di musicisti moderni. E così ho scoperto la sua passione principale e gli ho chiesto di iniziarmi ad alcuni dei suoi autori preferiti. Qualche giorno dopo mi arriva una mail che si apriva così: «“Music is your only friend, until the end” scrivevano i Doors. Forse non sarà l’unica amica ma, almeno per me, è stata sempre fondamentale. Difficile ammetterlo a uno scrittore, ma la musica per me è la forma d’arte più complessa, proprio perché, spesso, alle parole unisce il suono. Come recita il protagonista di Alta fedeltà di Nick Hornby riferendosi alla donna di cui si è innamorato: “La creazione di una compilation è una sofisticata forma d’arte che segue regole ben precise: prima di tutto si utilizza la poesia di un altro per esprimere quello che senti, ed è una faccenda delicata. Conosco i suoi gusti e so come farla felice”. Io odio la parola “compilation” e non conosco i tuoi gusti, quindi quanto segue chiamiamola raccolta o zibaldone e rispecchia cosa sento (e vivo, suono, canto…): ma accetto la sfida. Sarai tu, così come succede con i libri, a fare queste canzoni tue o meno, riascoltandole e “riscrivendole” a seconda dell’umore, della fase della vita o, più semplicemente, del momento. Cercherò di dare corpo e vita a questo elenco, non limitandomi alla mera citazione di canzone ed autore, ma aggiungendo qualcosa di personale».
E così mi sono trovato ad ascoltare delle tracce suddivise in: folgoranti, potenti, poetiche (testi che sono poesia), ricordi intensi, mitiche… A ognuna era associato un pezzo «memorabile» della sua vita: era una vera e propria autobiografia musicale. La sua lettera mi ha ricordato le parole dello psichiatra Oliver Sacks in Musicofilia, bel libro sul rapporto tra mente e musica (che poi, anche se non sembra, hanno la stessa radice etimologica): «Il primo stimolo a pensare alla musica e a scriverne mi si presentò nel 1966, quando vidi i profondi effetti che essa esercitava sui pazienti parkinsoniani che in seguito avrei descritto in Risvegli. E da allora, in molti modi la musica si è imposta di continuo alla mia attenzione, mostrandomi i suoi effetti su quasi ogni aspetto della funzione cerebrale, e della vita… Alla base di tutto questo c’è la straordinaria tenacia della memoria musicale, così che gran parte di quello che viene udito nei primi anni di vita può rimanere inciso nel cervello per il resto dell’esistenza».
(Parentesi polemica: pur essendo oggi assodato che l’educazione musicale ha effetti simili a lettura e scrittura, nella nostra scuola siamo fermi a qualche ora di flauto sulle note di una pubblicità di pasta o di fra’ Martino…).
Quell’uomo, attraverso la sua «compilation» mi regalava la «memoria» di sé, la vita memorabile, quella che non andrà mai perduta. Usiamo la parola «tracce» (tracks: sentieri in inglese) per indicare i brani musicali delle nostre «raccolte» (come quelle dei frutti), oggi playlist. Ma lo faceva già Omero che definiva i canti epici «vie, tracce» (oimai che è rimasto nella parola proemio, ciò che viene prima del canto vero e proprio), perché il narratore doveva ricordare a memoria i «pezzi» della sterminata epica orale come un jukebox narrativo. Quei racconti dovevano rendere indimenticabile ciò che l’uomo deve sapere sulla vita, se vuole salvarla e salvarsi dall’oblio e dalla morte. Lo stesso accadeva con la mia nuova amicizia, la cui rapidità è stata infatti dettata dalla necessità di dare più che di dire se stessi.
Come Sacks sottolinea all’inizio del suo libro citando Schopenhauer: «La musica esprime la quintessenza della vita e dei suoi avvenimenti, mai essi stessi». La grande arte non descrive fatti, le cose come passano, ma fati (il destino), le cose come si compiono e restano per sempre. In fondo l’amicizia è affidare il proprio destino a un altro, che avrà a cuore (ri-corda vuol dire mette nel cuore, by heart significa sa a memoria) il tuo destino, amico è chi custodisce il tuo compimento. Anche io ho cominciato a pensare alle mie «tracce» per lui, e questa settimana potremmo farlo tutti con qualche familiare o amico: che tracce gli lascereste? Ho raccontato la vicenda a un altro amico e, mentre scrivo, ascolto «un pezzo» del suo indimenticabile dolore: «E quando verrà l’ora di partire, vecchio mio/ Scommetto che ti giochi il cielo a dadi anche con Dio/ E accetterà lo giuro, perché in cielo, dove sta/ Se non ti rassomiglia che ci fa?».
Fonte: Alessandro D’AVENIA | Corriere.it