Il Natale è il compleanno di tutti e ciascuno, perché ci faremmo i regali altrimenti?
L’ho capito meglio guardando un capolavoro di Raffaello in mostra al Museo diocesano di Milano per il periodo natalizio. Si tratta di un rettangolo di legno (predella) diviso in tre scene che faceva da base al dipinto collocato nella cappella degli Oddi in San Francesco a Perugia, da dove fu rubato dai Francesi a fine 1700, per poi finire a Roma nel secolo successivo. La pala lignea era stata commissionata nel 1502 al 19enne Raffaello da Alessandra Baglioni, moglie di Simone degli Oddi, per la cappella dove un giorno avrebbe voluto la sua sepoltura. L’artista, in piena fioritura, consegnò l’opera due anni dopo, dipingendo nella parte verticale la tomba vuota di Maria assunta in cielo, nella base orizzontale le tre scene del Natale: annunciazione dell’angelo (concepimento), adorazione di Magi e pastori (nascita) e presentazione al tempio (introduzione del bambino nella comunità). Lo spettatore vede quindi una giovane ragazza che dà alla luce un bambino a cui molti fanno festa. E che cosa ci sarebbe di straordinario? Raffaello mi ha risposto nella prima delle tre scene. Come?
Nella prima scena Raffaello dipinge la figura più bella di tutta la predella, quella di un ragazzo che entra di corsa nella stanza di una ragazza. Entrambi hanno l’indice alzato, segno che stanno parlando.
Al centro della scena non ci sono loro ma uno spazio vuoto, che permette di guardare, attraverso una finestra spalancata, il paesaggio retrostante nel quale si intravede un ponte che conduce verso le torri di una città incastonata tra le colline.
Di che parlano? Il messaggero (in greco angelo) le propone di diventare madre e lei chiede spiegazioni non essendo sposata. Nel mito antico quando un dio vuole una donna se la prende con la forza, qui no: dialogano. Lo spazio vuoto (innovazione di Raffaello: la tradizione pittorica voleva che al centro ci fosse un personaggio) che separa il messaggero e la ragazza è la libertà: la Vita propone, l’uomo dispone.
Davanti alla ragazza c’è un libro aperto (impossibile in una casa di pastori di uno sperduto villaggio palestinese di duemila anni fa), simbolo di ciò che permette di coltivare l’ascolto, un’immagine della «vita interiore»: la voce della vita riesce a farsi sentire solo se c’è uno spazio aperto in noi, dove non c’è si è sordi alle chiamate e la vita diventa assurda (parola che viene appunto da sordo). Perché nasca qualcosa in me e attraverso di me è necessario che io sappia ascoltare la parola nascosta nella mia esistenza.
Gli indici alzati dei due personaggi rappresentano infatti il loro dia-logo, cioè l’offerta e l’ascolto del logos, parola/ragione di vita: che ci sto a fare qui, perché sono nato? Questo dialogo tra la giovane e la Vita si apre sul mondo, rappresentato nel paesaggio e nella città fuori dalla finestra.
La ragazza è la soglia su cui Dio si ferma: il limite della sua onnipotenza è la libertà. Non vuole burattini ma con-creatori: qui il destino non è violento ma una scelta libera. Credenti o no, ognuno di noi nella sua unicità è la risposta a una chiamata a dare alla luce «qualcosa» di nome Gesù (che significa Dio salva), cioè generare liberamente e creativamente qualcosa che salva il mondo. «Salvare» significa infatti preservare dalla distruzione, rendere integro, compiuto, da un file a un naufrago: salvare è dare vita, dare alla luce.
Ma non si può generare «salvezza» senza essere fecondati, cioè ascoltare che cosa la vita chiede a me e solo a me. Nel quadro infatti Dio è dipinto proprio «alla finestra» in attesa della risposta, e solo dopo invia il suo soffio (spirito) creatore (alato come una colomba) che diventa in-spirazione. Ispirato è chi, accolta la propria vita così come è, decide di farne capolavoro.
La città sullo sfondo, su cui si annuncia l’alba, è la Perugia in cui Raffaello dipinge la tavola, perché ogni città in cui qualcuno scopre come «venire al mondo» attualizza Nazareth: che cosa posso pro-creare solo io che «salva» (lo aiuta a compiersi) il mondo?
Quando formulo l’appello al mattino mi accade proprio questo: vedo adolescenti chiamati a «salvare» (compiere) se stessi e il mondo, generando «il verbo», cioè la parola-azione che abita in ognuno di loro. Io posso solo aiutarli ad scoprirla, perché ogni uomo è una parola-azione inedita (mai data) e inaudita (mai udita) che può venire al mondo (nascere) solo liberamente: il Natale o è nascita di quel verbo presente in ogni uomo o una bianca fuga dalla realtà.
Tempo fa ho scoperto che la mia parola-azione era già nel mio nome, Alessandro, in greco protettore dell’uomo: vengo al mondo, cioè nasco ogni giorno di più, nella misura in cui provo, con i miei limiti, a custodire il destino di persone (a scuola, nelle amicizie, in amore) e di personaggi (nei libri). Così pro-creo, mi salvo (mi compio) e salvo (compio) un po’ di mondo. Il Natale resiste nei secoli perché ci ricorda che c’è un verbo, parola-azione, che vuole farsi carne in noi: Natale è quindi fare spazio, liberarsi dalle menzogne di destino, ricevere l’ispirazione autentica e portarla al mondo nella propria carne. Non c’è Natale, nascita, senza con(ce)pimento: una ragazza qualunque di duemila anni fa mi ricorda che esistere non è «venire alle luci della ribalta» ma «dare alla luce nella carne».
Raffaello mi conferma che ogni persona è luce del mondo, lui che a 12 anni aveva risposto alla sua chiamata, cambiando città, per andare a bottega dal maestro migliore (Perugino), per poi affrancarsene e compiere il suo Natale terreno a soli 37 anni, come dice provocatoriamente un personaggio nei Demoni (coloro che vogliono «salvarsi» da soli) di Dostoevskij: «Io dichiaro che Shakespeare e Raffaello stanno al disopra dell’affrancamento dei contadini, del nazionalismo, del socialismo, della chimica, di quasi tutto il genere umano, perché sono già il frutto, il vero frutto di tutto il genere umano! Sono una forma di bellezza già raggiunta, senza la quale io, forse, non accetterei neanche di vivere. Senza gli Inglesi l’umanità può ancora vivere, senza la Germania può vivere, senza i Russi può vivere anche troppo bene, senza la scienza può vivere, senza pane può vivere, ma senza la bellezza no, perché allora non avrà assolutamente nulla da fare al mondo! Tutto il segreto è qui, tutta la storia è qui! Senza la bellezza, lo sapete, voi che ridete, che non inventerete nemmeno un chiodo?».
Senza bellezza, che è vita concepita e salvata (compiuta), non c’è nulla da fare al mondo, manca l’ispirazione anche solo per un chiodo, figuriamoci per vivere. Le luci del Natale che, sin dai tempi antichi, segnalavano il rinnovato prevalere della luce sul buio nelle 24 ore del giorno, ci aiutano, una volta l’anno, credenti o no, a prendere in considerazione che ogni singola vita è fatta per venire alla luce, essere parola-azione, pro-creazione e salvezza del mondo.
Il Natale che tutti, volenti o nolenti festeggiamo, è iniziato nella stanzetta di una ragazza di un villaggio sperduto di due millenni fa. Se prendessimo la e le vite con la stessa serietà di questo racconto, quanto Natale concepiremmo ogni giorno! E poi quanta luce daremmo al mondo e quanto mondo daremmo alla luce!
Fonte: Alessandro D’AVENIRA – Corriere.it