Il Natale ha lo stesso problema del cristianesimo: diventa una noia quando smette di dare vita. Cristianesimo è la parola che rinchiude Cristo in una dottrina, una filosofia, una morale, tanto che Agostino rispondeva a coloro che si vantavano di essere cristiani come si trattasse di un circolo o di una casta: «Non rallegratevi di essere cristiani, ma di essere Cristo». Lo stesso accade con il Natale: ridotto all’ideologia del «tutti più buoni» e alla morale di regali e brindisi, seppur accarezzati da una ventata di consumismo senza sensi di colpa, ne usciamo pesanti di cose e calorie ma poco pieni… di vita nuova. Natale è la nascita di un tale di nome Gesù, nome che significa Dio salva, ma salva che cosa, a parte qualche giorno di vacanza? Proviamo a usare questo racconto, credenti o no, come risorsa esistenziale per scoprire se ha ancora qualche potere «salvifico», cioè può dare alla nostra vita un’energia più duratura di due regali e un menù. Dio, che tutti più o meno cercano da sempre, si fa carne, si in-carna: la cosa intrigante non è di che colore ha gli occhi o quanto è alto, ma che ha la mia stessa carne e che la mia carne può diventare la sua. Ma che cosa è mai questa carne?
La carne, basar nel lessico biblico, non è quella che si compra dal macellaio né la gabbia dell’anima come diceva Platone, ma è l’uomo vivo, nella sua interezza (anima e corpo), e in generale ogni essere vivente («ogni carne in cui è alito di vita» così la Bibbia indica tutti i viventi). C’è una parentela «carnale» tra tutte le cose che hanno vita «a tempo»: limitata. Questa comunione (co-munus: dono comune) non è un ragionamento o un impegno morale, ma un fatto: la carne è dono che ho in comune con una rosa, un dalmata e un passante. Ma nell’uomo c’è un di più, un respiro in più: la carne (non solo la ciccia) si può aumentare! Infatti dell’uomo e della donna uniti si dice addirittura che diventano «una sola carne» (è la mia carne che abbraccio se ti abbraccio; è la mia carne che ferisco se ti ferisco), un nuovo soggetto talmente vivo da poter creare nuova vita. La carne è quindi la relazione più o meno intima che posso intrattenere con tutto ciò che vive per creare altra vita. Disprezzare la carne (non parlo di diete) è disprezzare la vita come legame tra tutte le cose: le filosofie, le morali, le tecniche che dis-incarnano fanno sempre violenza alla vita. La tendenza odierna a sostituire la carne, perché ci inchioda al fatto che siamo «a tempo», con proiezioni o protesi che ci fanno credere di essere illimitati, è un modo di sottrarsi al benedetto peso (pienezza) della vita.
C’è dis-incarnazione in una scuola che tiene gli adolescenti dietro un banco per ore come se non avessero corpo; in un social che porta a manipolare la propria immagine per esistere un po’ di più; in un algoritmo che ci stritola in dati; nell’uso mercificato del corpo… A fine giornata, bisognosi di una carezza, di un abbraccio, di un sorriso non siamo più in grado di chiederli o di darli, perché non abbiamo più una carne se non per vergognarci dei suoi limiti, quando sono proprio i limiti a salvarci, perché la carne costringe alla relazione (il limite non è un muro ma una soglia). E allora un Dio che si in-carna è una sorpresa a cui non mi abituerò mai: la carne che unisce tutti i viventi “a tempo” è anche la carne della Vita «senza tempo», tanto che Cristo arriva a dire non solo che chi fa qualcosa a un altro la fa a lui (è la stessa carne) ma anche che chi mangia la sua carne riceve la vita eterna, adesso non domani.
Ma allora che cosa è questa carne divina? Non è una bistecca di Dio ma la sua vita, che la carne (relazione con Lui e con tutto/i) può darmi. E che vita è quella di Cristo nella carne? Una vita limitata come la mia, ma non ego-centrata e quindi in affanno a procurarsi qualche giorno in più. Il limite per lui non è una condanna ma la possibilità di aprirsi all’infinito (sempre più e per sempre) in due direzioni: Dio e gli uomini, è un dono per il dono, il limite non fa paura ma fa vita, la povertà di Betlemme non è un inno alla miseria ma all’apertura, alla relazione, alla cura (Dio ha bisogno di tutto, anche del pannolino). Incarnarsi, farsi carne, significa allora in questo racconto diventare, come e dove siamo, un dono di qualcuno per qualcun altro (io sono un regalo per il mondo!), e poter vivere ogni cosa (lavoro, divertimento, fatica, tristezza, gioia…) per amore e per amare. Cristo per 30 di 33 anni ha fatto il falegname in un paesino: facendo tavoli ha salvato il mondo tanto quanto facendo miracoli, solo un undicesimo della sua vita è straordinario (a me accade lo stesso ogni 24 ore: dieci undicesimi, 22 ore, di faticosa ordinarietà e un undicesimo, 2 ore, di sorpresa). Insomma la carne di cui sono fatto può diventare amore e l’amore diventare la carne di cui sono fatto: una vita compiuta ma mai a spese altrui (carnefice è chi usa la carne altrui per riceverne l’energia che non trova in sé). A Natale festeggiamo la pretesa di Dio di farsi carne per darci carne: lo spirito si fa materia, l’eterno si fa tempo, l’immortale si fa mortale, l’infinito si fa finito, il compiuto si fa incompiuto, l’amore si fa desiderio, la pienezza si fa mancanza, il sacro si fa profano, la libertà si fa limite, l’assoluto si fa relativo, l’incondizionato si fa legame, il divino si fa umano… E quindi viceversa: nella carne c’è già Dio, nella materia lo spirito, nel tempo l’eterno, nel mortale l’immortale, nel finito l’infinto, nell’incompiuto il compiuto, nel desiderio l’amore, nella mancanza la pienezza, nel profano il sacro, nella condizione la libertà, nel relativo l’assoluto, nel legame l’incondizionato, nell’umano il divino… Se voglio mi è possibile vivere tutto per amore e per amare, trasformare la carne del mondo in amore ricevuto e dato. La «resurrezione della carne» non sarà quindi il ritorno a lucido dei miei atomi imputriditi, ma il modo in cui esseri limitati possono diventare vivi (creativi, originali, innamorati) ogni ora di più e sempre. Ma come? Se siamo tempo fatto carne, farsi carne significa allora ricevere e dare questa carne-tempo, come Cristo: amare è ricevere tempo da Dio e dare tempo agli uomini, anche se nel mondo dell’efficienza accelerata è diventato difficilissimo (come bisogna «fermarsi a pensare», oggi dovremmo «fermarci ad amare»: a questo servono le vacanze). E vorrei non comprare regali per lenire il senso di colpa della carne-tempo che non ho saputo ricevere e dare. Vorrei fare quanto dice il poeta Pedro Salinas all’amata: «Regalo, dono, offerta?/ Simbolo puro, segno/ che voglio darmi a te./ Come vorrei essere/ quello che io ti do/ e non chi te lo dà./ Ah!, se io fossi la rosa che ti do/ che non ha ora altro futuro/ che essere con la tua rosa,/ la mia rosa,/ vissuta in te, da te./ Fino a che tu la innalzi/ di là dal suo sfiorire/ sicura, inalterabile,/ tutta al riparo ormai/ da altro amore o altra vita/ che non siano i tuoi» (La voce a te dovuta).
La rosa diventa carne co-mune e per amore non sfiorisce, perché, donata e ricevuta, è sottratta alla morte. Natale è farsi (ricevere e dare) carne… e non solo carte (di credito e da regalo). Me lo e ve lo auguro. Ci rivediamo il 2 gennaio.