Perché perdere tempo a confezionare un bel pacchetto regalo non è affatto una perdita di tempo. Al contrario, è il modo migliore per esprimere il nostro amore.
Tempo di magra per tutti, questo Natale 2022. Il piatto piange, tra crisi economica, caro bollette, il terrore russo come ai tempi della Guerra fredda, il caro vita, i prezzi del carrello della spesa schizzati alle stelle. Così la crisi morde anche sotto l’albero: un rapporto di Confcommercio ci dice che questo sarà un Natale in tono minore per i regali. Quasi il 30% degli intervistati ha dichiarato che non comprerà nulla per le festività natalizie.
C’è poco da stare allegri per chi ama fare (e ricevere) regali. A remare contro c’è poi anche tutta una corrente di pensiero: quella di chi magari ha meno problemi di liquidità, ma ritiene una insopportabile perdita di tempo arrovellarsi per andare alla ricerca del regalo giusto. Troppe variabili in questa equazione dove il rischio di andare in perdita è sempre dietro l’angolo.
Fare un regalo, oltre che soldi, richiede tempo e fatica: prima di tutto bisogna trovare il negozio giusto. E anche comprando online non è detto di trovare all’istante tutto quello che si cerca.
Senza contare che, una volta trovato e acquistato il regalo, il destinatario dei nostri sforzi potrà risultare deluso, scontento, insoddisfatto del nostro dono. Una eventualità per nulla peregrina. Penso ad esempio ai più temerari: i maschietti che si avventurano a comprare qualcosa da vestire alla moglie o alla fidanzata sperando (quasi sempre invano a meno di illuminazioni miracolose) di azzeccare la taglia giusta, il colore giusto, la foggia giusta, ecc.
Perché non regalare direttamente… soldi?
Invece che scervellarsi e rischiare di fare fiasco, non è meglio a questo punto – è la provocazione lanciata da Giacomo Samek Lodovici sull’ultimo numero del «Timone» – dare direttamente al potenziale donatario/a la somma che vogliamo destinare al suo regalo? Del resto chi meglio di lui/lei può conoscere i propri gusti, i propri interessi, i propri desideri?
Sarebbe tutto molto più rapido e efficiente. Niente rischio di delusioni, tutto filerebbe secondo previsione.
E allora perché qualcosa non ci soddisfa quando a Natale ci arrivano soldi invece di un bel pacchetto regalo? Forse perché la sorpresa del dono ha una logica completamente diversa da quella semplicemente utilitaristica che entra in ballo quando si “fa di conto” col denaro.
Dove c’è il regalo c’è casa
Perché regalare dunque? E parlo proprio del classico pacchetto regalo.
Prima di tutto perché confezionare un regalo è un rito. Il filosofo tedesco-coreano Byung-Chul Han parla di una «scomparsa dei riti» nel mondo occidentale. Ma i riti sono indispensabili per l’uomo.
I riti non sono altro che azioni simboliche, sottolinea Byung-Chul Han, capaci di trasformare una massa separata di uomini in una comunità. Sono tecniche simboliche di accasamento: fanno del mondo un posto affidabile e del tempo un posto abitabile.
Nel romanzo La cittadella, Antoine de Saint-Exupéry li descrive proprio così:
«I riti sono nel tempo quello che la casa è nello spazio. Perché è bene che il tempo che passa non dia apparentemente l’impressione di logorarci e disperderci come una manciata di sabbia, ma di perfezionarci. È bene che il tempo sia una costruzione. In tal modo posso procedere d’onomastico in onomastico, di compleanno in compleanno, di vendemmia in vendemmia, così come da bambino camminavo sulla camera di consiglio alla camera silenziosa, fra le spesse mura del palazzo di mio padre, nel quale tutti i passi avevano un senso».
Il rito rende sensato il mondo
I riti danno il senso della stabilità e della durata nel mare sempre in tempesta della vita. Ci rendono familiari gli spazi e i tempi dell’esistenza. E non solo: le forme rituali (la cortesia ad esempio) rendono possibili le relazioni interpersonali più belle, quelle che durano nel tempo. Quando “consumiamo” una persona non abbiamo bisogno di particolari riti: la mettiamo da parte dopo averla spremuta fino all’ultima goccia.
Il rito rende possibile usare in maniera sana anche le cose, spiega Byung-Chul Han: «Nel quadro rituale, le cose non vengono consumate o spese, bensì usate – così possono anche invecchiare». Viceversa, in un mondo di usa-e-getta e di obsolescenza programmata le cose non vengono usate, ma consumate. Non sono pensate per durare nel tempo. Ci sono solo consumatori, non utilizzatori.
Il regalo è una sorta di luogo supremo dove si danno appuntamento due mondi: il mondo della persona e il mondo della cosa.
Perché nel regalo la confezione conta, eccome se conta…
Ma in questo incontro che esalta tanto la persona quanto la cosa le gerarchie sono chiare.E lo prova, paradossalmente, il fatto che la confezione, nel regalo, sia una specie di Cenerentola che emerge dalla marginalità per assumere il posto d’onore nella festa. Il confezionamento è fondamentale nel regalo, spiega il sociologo Jacques T. Godbout: è il rito che riassume in sé tutto lo spirito del dono.
Infatti è cruciale che la confezione non mostri, ma piuttosto celi allo sguardo la cosa regalata. Perché qui è proprio questione di sostanza. Per dirla ancora con Antoine de Saint-Exupéry (del Piccolo Principe stavolta), «l’essenziale è invisibile agli occhi». Perché «non si vede bene che col cuore».
Nascondere la cosa, velare di mistero il dono sta a significare che a contare veramente non è tanto la cosa nascosta: è il gesto che abbiamo fatto. Una centralità enfatizzata dalla bellezza della confezione e dalla sua successiva distruzione quando, finalmente, il dono viene ricevuto dal destinatario.
Il dono-regalo: una logica di comunione
Nella grammatica del dono questo significa una cosa soltanto: la gratuità, il segno dell’antiutile per eccellenza. Il rito della confezione e della distruzione serve ad assicurare quel minimo di spreco e dilapidazione che si accompagna alla donazione autentica. Come accade, non a caso, con l’eleganza cerimoniale della liturgia che Cristina Campo definiva «splendore gratuito, spreco delicato, più necessario dell’utile», dove si spreca per onorare la Persona divina.
In altri termini, lo spreco della confezione sta a indicare un primato: quello della relazione personale, che prevale su quello meramente utilitaristico. La cosa donata è dunque importante, perfino indispensabile, ma non è la “prima cosa” che conti. È una logica di comunione.
Il regalo celebra la persona a cui abbiamo donato qualcosa, innalza inni alla sua unicità. È come dire: «È meraviglioso che tu, proprio tu, ci sia! Lode a chi ti ha messo al mondo!». Al centro del regalo c’è la persona e il legame che abbiamo con lei.
La cosa-consumo: una logica di separazione
Tutt’altra logica quella consumistica, tipica delle confezioni commerciali. Per le quali, al contrario, l’essenziale deve essere ben visibile agli occhi. Perché col cuore si vedrà anche bene, ma si compra assai poco. Qui vale il meccanismo infernale della pubblicità: far vedere per far vendere. Mettere in mostra per mettere in vendita, vetrinizzare le cose.
Ecco perché è meglio che le confezioni commerciali siano trasparenti. La loro trasparenza serve a far vedere il prodotto e la sua integrità sotto la plastica traslucida con cui solitamente sono avvolti gli articoli commerciali. E la logica è più simile a quella della separazione tra produttore, venditore e consumatore finale. Meglio che niente – o il meno possibile – delle persone del produttore e del venditore venga “trasmesso” al consumatore (in un tempo di virus pandemici, poi… ). È una logica di prevenzione: dai rischi del contato diretto, come usa ancora tra persone fatte di carne, ossa, odori… Uno scambio tra sconosciuti in un clima di anonimato: questo è l’ideale consumistico.
Qui il primato va alla cosa da consumare, prima che alla persona. Dunque la confezione deve assicurare l’integrità del prodotto, deve attirare il potenziale consumatore e al tempo stesso garantire la profilassi. Guadagnare, attrarre, prevenire. Tutto congiura affinché la confezione non cerchi affatto di nascondere la cosa. Anzi, è meglio che la esibisca più che può. La trasparenza, si sa, in questo campo è un must.
C’è dono e dono
Certo, è noto che c’è anche una doppiezza del dono, che può rivelarsi tanto regalo quanto veleno. Una doppia valenza che trova espressione nel duplice senso di Gift nelle lingue anglosassoni: dono e veleno.
Col dono-veleno (pensiamo solo al cavallo di Troia) possiamo anche cercare di obbligare l’altro a contraccambiare. Farlo sentire in debito per forzare la sua volontà. Dietro al dono-veleno può esserci perfino l’odio, la volontà malvagia di cercare il male e l’annientamento dell’altro (timeo Danaos…). Di fatto è uno pseudo-dono fatto per incatenare.
Il dono-regalo, al contrario, è ispirato dall’amore. Donare in maniera sana equivale a creare un legame con un’atra persona o a consolidarne uno già esistente, manifestando visibilmente il nostro affetto per lei. In altre parole, regalare esprime l’amore che proviamo. San Tommaso d’Aquino dice chiaramente, scrive Samek Lodovici, che l’amore è quel «dono originario da cui promanano tutti gli altri doni, in quanto la prima cosa che doniamo all’altro è l’amore stesso con il quale gli vogliamo bene».
Il debito simbolico del dono
Il dono genera un debito simbolico che è tutta altra cosa da un “regolamento di conti”. Tanto è vero che i conti si cominciano a regolare quando si comincia a uscire dal sistema del dono e a parlare d’affari. Come tra due ex coniugi. Che in genere riescono a farlo seriamente solo tirando in mezzo, tra ex moglie e ex marito – cosa sconsigliabile in alte circostanze –, un avvocato. Ovvero uno specialista che entra in scena per trascinare i due membri della coppia scoppiata nella logica mercantile: do ut des (non si fa niente per niente) e unicuique suum (a ciascuno il suo). Una logica sicuramente giusta, ma dura e fredda, per nulla adatta alle temperature calde dell’amore. È quando finisce l’amore che si comincia a contare e a farsi valere, anche sul piano economico. Prima si dava senza contare.
Ecco perché a Natale sarebbe bello tornare a regalare doni e pacchetti. Senza fare troppi calcoli o conteggi, mentre attendiamo il Dono dei Doni da parte del Prodigo per eccellenza: Dio Padre, che «ha tanto amato il mondo da donare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16).
Fonte: Emiliano FUMANERI | Aleteia.org