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Quella luce che unisce Hanukkah al Natale

La festa ebraica (che quest’anno si celebra tra il 18 e il 26 dicembre) lega passato e presente per dare futuro al popolo in attesa. Quella cristiana segna il compimento consacrante di Dio che abita il tempio della carne dell’uomo

Si accendono nelle famiglie ebraiche le candele della Hanukkah, la festa della dedicazione, la festa delle luci. Questa ricorrenza celebra la speranza ritrovata: uno spazio sacro -il nuovo altare-, riportato al tempo antico, dopo la profanazione di Antiochio VI nel secondo secolo a.C. L’antico e il nuovo si rincontrano dopo la contaminazione del potere, la dissacrante intromissione del male nel tempo/ spazio dell’incontro sacro. Passato e presente riconciliati, accendono, nelle tenebre, la luce della speranza. Il futuro sarà rinnovata Presenza, rinnovata possibilità di Incontro. È il miracolo di una luce che non si estingue, di un olio che non finisce, di un crisma che continua ad alimentare la certezza di un futuro di libertà.

Nonostante i sacerdoti avessero trovato solo un’ampolla di olio non profanato -appena sufficiente perché il candelabro potesse rimanere acceso solo per un giorno- questo olio miracolosamente dura otto giorni. Può splendere la luce del candelabro nel tempio, può splendere per la nuova consacrazione dell’altare! L’olio, che sarebbe bastato per un giorno, dura gli otto giorni di una nuova creazione. La festa della Hanukka dura otto giorni (il tempo della durata dell’olio), perché l’ottavo giorno, il più solenne, è segno di un nuovo inizio, di una nuova creazione, di un ri-partire certo. Con un coraggio incrollabile, secondo l’esempio dei martiri, secondo il coraggio delle madri.

Infatti, in questa festa anche alla donna è riservato un ruolo importante, specialmente nelle tradizioni ebraico-africane. Si festeggiano Giuditta, e le altre “madri” eroiche. Tra queste Anna, madre di sette figli uccisi dai Maccabei perché fedeli alle prescrizioni mosaiche. Una madre forte che non rinnega la sua fede e non tradisce l’amore vero per i propri figli.

Le donne sono l’icona di questa dedicazione, di una fiamma che brucia, si consuma e illumina, come quella del candelabro. Loro danno alla luce, danno la vita che è speranza, perché ogni nato è luce di speranza. Anche loro possono e devono accendere durante la festa, giorno dopo giorno un braccio della Hanukkiah, il candelabro a nove luci (una, lo shamash, serve per accendere le altre). E pregano, insieme ai figli e agli uomini ricordando le gesta dei Maccabei e infondendo il seme di un coraggio eroico che vince la dissacrazione dell’acquiescenza.

Questa festa ebraica si sovrappone alla festa del Natale, e come periodo e, per qualche misura, come senso. Una donna eroica dà alla luce un bambino, nel buio della grotta, nello “stretto” di una mangiatoia. Muore la sua verginità intatta che non avrà altri parti, vive imparando che morire è accettare perfino la morte del Figlio, che credere è dare la vita della propria vita. È certo un evento di fede, di coraggio, quindi di speranza, di Luce. Così è descritto dall’evangelista iconografo Luca… una grande luce dal cielo avvolge i pastori… Così è presentato nel percorso architettonico della Tenda, la chiesa del Barluzzi al Campo dei Pastori di Betlemme. La luce della dedicazione, la luce della vita restituisce la speranza, come ogni vita che nasce, come ogni luce che dirada la notte.

Un Bambino nasce per noi, luce per il popolo che cammina nelle tenebre… Lui, Luce del mondo. In ebraico Luce ad ‘olam, idea che raccoglie in unità lo spazio e il tempo, l’eternità e il mondo. Concetto che unisce, come ogni nascita, lo spazio della corporeità e il tempo del divenire. Nasce l’Unto, per il quale mai si estinguerà l’olio della consacrazione. La festa della Hannukka lega passato e presente per dare futuro al popolo in attesa.

La festa del Natale segna il compimento consacrante di Dio che abita il tempio della carne dell’uomo. Per noi la prima attesa è compiuta, il regno è cominciato. Questo ci slancia alla seconda venuta: a vivere costantemente in attesa di un compimento sempre progressivo, che lungo il nostro tempo mai si conclude perché mai ci esclude. Perché interpella la nostra libertà di incontrare, seguire e credere. Perché questo compimento incipiente interpella la libertà della accoglienza nell’intima dimensione della nostra carne del Totale Altro. Lui si abbassa al tempo e allo spazio della incarnazione.

Nel tempo e nello spazio del nostro sì. Lui-Figlio si dedica, Lui-Padre ci dedica la vita del Figlio: nato morto alla divinità, morto e rinato per l’umanità. Morto per la croce e rinato per la totale fiducia al Padre… in fondo non è questa la Resurrezione, e questo non è oggi il nostro Natale?

Fonte: Valerio CHIOVARO | FamigliaCristiana.it

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