Da dove viene il fascino del Natale? Perché coinvolge tutti, anche i non credenti? Perché ogni anno – tanto più oggi, dopo la pandemia – tutti ci concediamo un sorriso, in qualche modo in nome del bambino di Betlemme, se non altro mettendo luci o addobbi o facendo l’albero o il presepe o un gesto di solidarietà o scambiandoci doni e auguri? Perché questa sorta di tregua? Perché il Natale produce questa atmosfera?
Intravedo due motivi. Il primo: perché non è il rito di una religione, una credenza o un’opinione, ma è un fatto storico, un avvenimento accaduto in un preciso momento e in un luogo. Un fatto è innegabile, quindi è universale. Cristo stesso, diceva don Luigi Giussani, è “l’Accaduto” e Gesù è profondamente e misteriosamente affascinante. Per tutti è un presentimento di Bene.
Il secondo motivo. Il Natale è un avvenimento che commuove perché c’è una giovane madre, un neonato e un padre: nulla è più universale e umano di questa tenerezza. Inoltre avviene tutto nella povertà.
È un paradosso perché – secondo la cronaca del Vangelo – appaiono addirittura gli angeli per esaltare quella nascita come “Gloria di Dio”, pur trattandosi sulla terra del più semplice e misero degli eventi. Anzi, addirittura umiliante perché avviene in una stalla, nel fieno, fra gli animali e i loro escrementi. La Gloria di Dio è nel fieno, nel gelo dell’inverno, fra gli escrementi e il fiato di un bue e di un asino?
Si tratta di un rovesciamento totale dei criteri mondani con cui giudichiamo tutto: Dio ama ciò che è piccolo, ciò che sta in basso, proprio ciò che il mondo disprezza o ritiene insignificante. Dio ha voluto nascere lì, si fa presente proprio lì.
Quello che è accaduto a Betlemme, diceva Chesterton, insegna che “per incontrare Dio non bisogna salire, ma bisogna scendere. Bisogna diventare umili”.
Per conquistare il cielo bisogna guardare in basso, sulla terra. Umiltà viene da humus, terra. Dio ha l’infinita umiltà di farsi uomo perché gli uomini possano trovarlo senza bisogno di “scalare il cielo”, di essere particolarmente sapienti o potenti. Anzi, si fa incontro specialmente a chi si sente nessuno, a chi è disprezzato o non si sente capace di nulla o non si sente degno.
Il presepio, inventato da san Francesco per ricordare ciò che accadde a Betlemme, mostra tutto questo e commuove perché chiunque ha tenerezza di un piccolo neonato inerme, che nasce in un misero tugurio, circondato dall’amore di una povera famiglia.
È ben strano e sorprendente questo modo di agire di Dio, eppure tocca tutte le corde della nostra umanità, parla al cuore di ognuno. Sembra una follia perché chi ama fa follie. Ma Dio è così. È l’Amore stesso. Non si tratta di una credenza, ma di una notizia.
Il Papa, nell’udienza di mercoledì scorso, ha detto: “Pensiamo a Dio che ci ama, ci vuole amici! L’amicizia con Dio ha la capacità di cambiare il cuore… Abbiamo un Padre tenero, un Padre affettuoso, un Padre che ci ama, ci ha amato da sempre: quando se ne fa esperienza, il cuore si scioglie e cadono dubbi, paure, sensazioni di indegnità. Nulla può opporsi a questo amore dell’incontro con il Signore”.
Siamo nati per fare questa esperienza e se ne siamo privi avvertiamo che la vita ha un vuoto incolmabile. Nell’ultimo numero di “Civiltà Cattolica”, padre Antonio Spadaro cita uno scrittore svedese, Stig Dagerman, che scrive:
“Mi manca la fede e non potrò mai, quindi, essere un uomo felice, perché un uomo felice non può avere il timore che la propria vita sia solo un vagare insensato verso una morte certa. Non ho ereditato né un dio né un punto fermo sulla terra da cui poter attirare l’attenzione di un dio. Non ho ereditato nemmeno il ben celato furore dello scettico, il gusto del deserto del razionalista o l’ardente innocenza dell’ateo. Non oso dunque gettare pietre sulla donna che crede in cose di cui io dubito o sull’uomo che venera il suo dubbio come se non fosse anch’esso circondato dalle tenebre. Quelle pietre colpirebbero me stesso, perché di una cosa sono convinto: che il bisogno di consolazione che ha l’uomo non può essere soddisfatto”.
Questo “bisogno di consolazione” non è sentimentalismo, è la vera domanda della vita. Senza la consolante amicizia di Dio tutto perde consistenza e significato. Diventa nulla e vince la morte. Infatti sempre Dagerman osserva:
“Tutto quel che mi accade di importante, tutto quel che conferisce alla mia vita il suo contenuto meraviglioso – l’incontro con una persona amata, una carezza sulla pelle, un aiuto nel bisogno, il chiaro di luna, una gita in barca sul mare, la gioia che dà un bambino, il brivido di fronte alla bellezza –, tutto questo si svolge totalmente al di fuori del tempo. Che io incontri la bellezza per un secondo o per cent’anni è del tutto indifferente. Non solo la beatitudine si trova al di fuori del tempo, ma essa nega anche ogni relazione tra il tempo e la vita”.
Se è vero che abbiamo vissuto l’epoca della scristianizzazione, è anche vero che ora stiamo vivendo la fine delle ideologie dell’ateismo. È raro oggi percepire – come dice Dagerman – il “furore dello scettico, il gusto del deserto del razionalista o l’ardente innocenza dell’ateo”.
Nei giorni scorsi, in amichevole polemica con un intervento del card. Ravasi, Adriano Sofri sul “Foglio” ha lasciato scivolare queste parole: “Sono stato un ‘vero ateo’, e ora lo sono meno, o non lo sono più affatto. La guerra d’Ucraina, come un colpo di grazia, mi ha tolto, per così dire, la voglia di non credere in Dio”. Ha poi aggiunto che Ravasi “crede a Gesù vero Dio e vero uomo, io all’uomo. Al suo modo di parlare e alle cose che diceva. Al suo modo così umano di piangere”.
È il fascino di Gesù… è una brezza lieve che investe questi anni. Anche lo scrittore francese Michel Houellebecq (che dice di essere cresciuto in una terra scristianizzata: “non sono stato battezzato e sono stato educato da persone che hanno votato comunista perché erano proletari”) si sente attratto dal cristianesimo e racconta di essere andato talvolta a messa. Poi aggiunge: “mi sono piaciuti i miei soggiorni nei monasteri. Stavo bene tutto il tempo”.
È iniziata l’epoca della nostalgia di Cristo? Un mese fa, sul settimanale del “Corriere della sera”, Antonio Polito ha raccontato di aver partecipato alla messa funebre del figlio di due colleghi, morto in un incidente. Un evento molto doloroso. Polito riferisce che la chiesa era piena di giovani “con gli occhi gonfi di pianto” e tutti erano sconvolti dall’assurdità di quella morte. Tutti con domande angoscianti. Ad un certo punto, in chiesa, sono risuonate le parole del parroco che ha dato una risposta sorprendente: la resurrezione.
“Bisogna aver fede per credere nella resurrezione di Francesco. Per credere che quel sabato mattino ci stesse guardando dal Paradiso. E non tutti” scrive Polito “abbiamo questa fede. Non io, purtroppo. Eppure lo straordinario trionfo della vita che è il Cristianesimo, la forza di un messaggio unico tra le religioni (…) ci ha cambiato tutti quella mattina. Ha alleviato il peso dal nostro cuore… Non sono un assiduo frequentatore di chiese, ma non avevo mai visto così tanti giovani in fila per prendere la comunione. E allora ho pensato: che guaio che il messaggio cristiano si sia così indebolito nella nostra Italia. Che forza ci darebbe per affrontare un tempo sempre più tumultuoso e inquieto”.
Ma è proprio ciò che sta accadendo… Qui e ora come a Betlemme. Julien Green nel suo Diario scriveva: “Credo che siamo tutti in cammino verso il cristianesimo, ed è all’incirca tutto quello che possiamo dire”.
Fonte: Antonio Socci | antoniosocci.com