La scuola sta diventando il luogo privilegiato di una offensiva pro gender fluid e identità non binarie. I genitori possono difendersi?
Nel mondo distopico che George Orwell immagina nel suo romanzo 1984, ruolo di primaria importanza ha la neolingua, strumento utilizzato dal potere per imporre una realtà parallela spesso contraria al buon senso, imbrigliando le parole per controllare il pensiero. La neolingua elaborata dall’ideologia gender ha prodotto parole come cisgender, transgender, queer, intersessuali, asessuali, gender fluid, gender equality per fare solo alcuni esempi.
Ci hanno abituati a distinguere tra sesso biologico e identità di genere perché un maschio si può sentire femmina e una femmina si può sentire maschio; ma questo non condiziona l’orientamento sessuale perché un maschio non necessariamente si sente attratto da una femmina e neppure un maschio che si sente femmina si sente necessariamente attratto da un maschio.
Apprendiamo sempre dalla propaganda LGBTQ+ che ci sono molte sfumature dell’essere maschi o femmine dal punto di vista biologico e molte sfumature anche quando si parla di orientamento sessuale. Ma le cose si complicano ulteriormente quando si parla di genere. Il concetto che si vuole imporre è che “il genere è uno spettro”, cioè che non esistono solo un genere femminile e un genere maschile, ma uno spettro continuo di generi tra questi due estremi.
Dal momento che lo spettro varia con continuità dal maschile al femminile, diventano infinite le possibilità di genere con diversa percentuale di mascolinità e di femminilità. Denominare ognuna di queste identità è oggettivamente impossibile. La soluzione trovata è una denominazione collettiva, quella di identità non binarie. La cosa mi sconcerta non poco, perché la mia identità risulta essere binaria, cosa che mi richiama molto la schizofrenia.
Siamo ormai fuori dalla realtà. Il delirio gender, nel cercare una legittimazione linguistica, ha risvolti umoristici. Sul sito dell’Accademia della Crusca si trova un interessante trattatello in risposta alla domanda: “Come dovrei rivolgermi nella lingua italiana a coloro che si identificano come non binari? Usando la terza persona plurale o rivolgendomi col sesso biologico della persona però non rispettando il modo di essere della persona?”. In pratica: con quale desinenza designare gli elementi sintattici afferenti a una persona che si qualifica come identità non binaria? La situazione è un po’ intricata e pone l’Accademia in un malcelato imbarazzo, pur sforzandosi in un patetico tentativo di minimizzare il problema:
“L’italiano offre il modo di non precisare il genere della persona con cui o di cui si sta parlando. L’unica avvertenza sarebbe quella di evitare articoli, aggettivi della I classe, participi passati, ecc., scelta che peraltro (come ben sanno coloro che hanno affrontato la tematica del sessismo linguistico) è certamente onerosa… Insomma, il sistema della lingua può sempre offrire alternative perfettamente grammaticali [?] a chi intende evitare l’uso di determinate forme ed è disposto a qualche dispendio lessicale o a usare qualche astratto in più pur di rispettare le aspettative di persone che si considerano non binarie. Certamente l’accordo del participio passato costituisce un problema; ma non c’è, al momento, una soluzione pronta: sarà piuttosto l’uso dei parlanti, nel tempo, a trovarla”.
Non volendo qualificare nessuno come maschio o femmina, nei documenti ufficiali di diversi enti pubblici, anche scuole, si utilizza come desinenza di sostantivi e aggettivi l’asterisco: non più “studente”, ma “student*”, non “iscritti”, ma “iscritt*”, non “ragazzi” ma “ragazz*”. Il problema è come pronunciare queste parole. Attualmente sta prendendo piede, al posto dell’asterisco, lo schwa (il carattere “ə”), che può essere pronunciato come suono. Si tratta di un suono che non è una vera e propria “a”, neanche una vera e propria “e”, tanto meno una “o”, ma qualcosa nel mezzo. Addio dolce lingua del “si”. Sembra di essere su “Scherzi a parte”.
L’introduzione fin dalla scuola primaria di teorie che puntano a pervertire la naturale innocenza dei bambini e confondere il processo di definizione e consolidamento dell’identità negli adolescenti non è forse il problema più grave.
La questione forse più nociva è la decostruzione culturale della nostra civiltà, perpetrata attraverso concetti tesi a scardinare la realtà e a creare un disorientamento nel quale il cittadino è facile presa del pensiero unico dominante.
La maggioranza degli italiani, però, rifiuta l’indottrinamento ideologico LGBTQ+ rivolto ai bambini e chiede maggiori tutele.
È il risultato di un sondaggio promosso da Pro Vita & Famiglia e presentato al Senato il 21 settembre scorso. Secondo questo sondaggio, gli italiani, in maggioranza contrari a sostituire le parole “padre” e “madre” con “genitore 1” e “genitore 2”, ritengono che le scuole debbano preventivamente informare e coinvolgere le famiglie in caso di corsi o progetti sui temi dell’affettività e sessualità.
Rispetto alla pratica di recente diffusione della cosiddetta “carriera alias” (tramite cui la scuola si relaziona con uno studente o una studentessa sulla base della sua identità di genere autopercepita e non del sesso biologico), la conoscenza da parte degli italiani è ancora limitata, ma la maggior parte di chi ne è al corrente la respinge.
Infine, la netta maggioranza di italiani si esprime contro la possibilità di sottoporre un minore incerto sulla propria identità sessuale a terapie di transizione di genere comprensive di farmaci ormonali o interventi chirurgici, e che, in questi casi, il minore dovrebbe poter ricevere assistenza psicologica per riconciliarsi con il sesso biologico.
Sta di fatto che molte scuole già realizzano attività improntate all’ideologia gender, come la Giornata contro l’omotransfobia, incontri con personaggi LGBTQ+, lettura di autori LGBTQ+ (ad esempio romanzi, fiabe, film, opere teatrali), attivazione di carriere alias, adozione dell’asterisco (*) nelle circolari scolastiche, installazione di bagni dal genere neutro, introduzione di giornate “gender swap”, cioè dedicate allo scambio di ruoli, non sempre con adeguata informazione dei genitori.
In prossimità delle iscrizioni per il nuovo anno scolastico sarà bene che i genitori scelgano la scuola per i propri figli avendo alcune fondamentali precauzioni, come quella di verificare con cura i piani triennali dell’offerta formativa (Ptof) prestando attenzione a parole come: educazione all’affettività, educazione sessuale, omofobia, superamento degli stereotipi, identità di genere, diritti civili, bullismo o violenza di genere e cose simili, tutti nomi sotto i quali spesso si nasconde l’indottrinamento gender. È bene consultare i testi scolastici adottati per conoscere l’uso delle stesse espressioni, tenere aperto un confronto con i propri figli sui contenuti delle lezioni svolte dagli insegnanti e visitare frequentemente il sito della scuola per scoprire l’eventuale attivazione di iniziative come quelle citate, fino ad interpellare gli organi collegiali, il coordinatore del consiglio di classe e il dirigente scolastico in caso di ambiguità.
L’ideologia gender è dilagata in ogni ambito della società, bollita, ormai, come la rana di Chomsky.
Scongiuriamo il pericolo che la scuola ne diventi il più accreditato organo di propaganda.
Fonte: Giuliano Romoli | IlSussidiario.net