È il «Soffio Curatore» che ci rende unici. Successo, soldi e potere hanno fiato corto, sta a me scegliere se «divorare» o «covare». Una riflessione guidata sull’idea di Cura
Quando Franco Battiato canta La cura, legittimamente interpretata dai più come canzone indirizzata a qualcuno, si rivolge innanzitutto alla propria anima, da anemos, vento, il soffio che rende «viventi» tutti gli esseri «animati», ma che in noi uomini è qualcosa di più. A noi non basta essere viventi, noi vogliamo essere vivi. Se i viventi hanno il fiato, noi abbiamo il respiro, che è quel di più: in italiano è lo spirito o spiro, da cui vengono parole come respiro, ispirazione, spirare… che racchiudono il senso della vita «animata» e non solo «animale». Ma mentre negli animali accade, noi possiamo aumentare questo soffio, tanto da riuscire, come dice il cantautore siciliano, a non soccombere a: paure, turbamenti, ingiustizie, inganni, fallimenti, dolori, sbalzi d’umore, ossessioni, malattie.
Ma qual è il segreto di questa cura di sé? Che cosa ci guarisce veramente dalla paura del nulla, dal vuoto di senso che cerchiamo di riempire senza riuscirci? Come promettere all’anima: amore che vince l’aridità, spazio e luce per non invecchiare? Siamo nel campo dell’utopia e della retorica del «per sempre» quando siamo solo «a tempo»? Si può davvero affermare: «Ti salverò / perché sei un essere speciale / e io avrò cura di te. / Io sì, che avrò cura di te»? Chi può dirmi senza mentire che sono «speciale», cioè una specie unica per cui lotterà affinché io non mi estingua? Chi mi ama così tanto che potrò scrivere ciò che ha voluto si scolpisse sulla sua lapide Raymond Carver, meraviglioso scrittore americano morto di tumore a 50 anni: «E hai ottenuto quel che / volevi da questa vita, nonostante tutto? / Sì. / E cos’è che volevi? / Potermi dire amato, sentirmi / amato sulla terra». Chi può farmi sentire e dire «Amato sulla Terra», quasi fosse il mio vero nome? Può riuscirci un uomo o una donna? Posso riuscirci io? O ci vuole un’altra Cura?
Non è moralismo
La Cura è l’origine dell’umano nell’uomo. Lo racconta un mito creato da Platone. Quando il dio Chronos (Tempo) che pro-curava tutto ai viventi dovette ritirarsi dalla vicenda umana a causa dell’inversione del corso del cosmo, gli uomini furono lasciati a se stessi e dovettero «prendersi cura di sé da se stessi». Quando viene affidato a ciascuno (non siamo più del Tempo ma abbiamo del tempo) il tempo umano prende il nome di cura. Nella narrazione cristiana addirittura l’Eterno si fa Tempo (carne) e si affida alle cure di una madre, di un padre e di un villaggio: anche Dio se entra nella storia umana ha bisogno di cura, e poi diventerà lui stesso uno che cura. Essere «di» e «a» tempo significa «essere per la cura». Non è un moralismo ma il modo umano di diventare vivi: noi non ci prendiamo cura degli altri perché li amiamo, bensì impariamo ad amarli se ci prendiamo cura di loro. Io non amo in partenza i miei studenti, ma me ne prendo cura, e così imparo ad amarli e li amerò nella misura in cui dedicherò tempo (cura) a ciascuno e a tutti. L’amore allora non è qualcosa di spontaneo o naturale, un sostantivo, ma un impegno per rendere la vita dell’altro più compiuta, un verbo. E non lo faccio per filantropia, ma perché mi conviene: chi cura si cura, che è come dire chi dà tempo riceve tempo. Non è un caso che il tatto, senso della cura, sia l’unico il cui mezzo è il senso stesso: la vista vuole la luce, il suono lo spazio, il tatto ha bisogno del… tatto. Io toccando sono toccato, curando sono curato. Avere «tatto» (cura) per la carne del mondo, dà origine all’amore di cui abbiamo bisogno per poterci dire Ama(n)ti sulla Terra. E la cura è il dono del tempo limitato che ho, io sono tempo fatto carne: curare è dare la carne, tras-curare è toglierla.
Per questo il recente cruentissimo film di Luca Guadagnino Bones and All (espressione che significa fino all’osso), narra di due ragazzi cannibali che sembrano riuscire a non divorarsi a vicenda, grazie al prendersi cura l’uno dell’altro. Niente di nuovo: già il conte Ugolino dantesco azzannava nell’aldilà la testa del suo nemico Ruggeri (il fiero pasto di scolastica memoria) dopo aver divorato, nell’al di qua (spiritualmente o anche fisicamente?), i figli rinchiusi in una torre per colpa sua. L’inferno più profondo è fatto di uomini che mangiano altri uomini e il Satana di Dante ha tre bocche con cui divora costantemente tre dannati. Noi, tempo finito che attraverso la cura diventa amore, spesso preferiamo pro-curarci il tempo togliendolo agli altri, «mangiandoli»: usandoli, manipolandoli, distruggendoli, crediamo di «assimilare», come con il cibo, il tempo che ci manca. Per la fame di tempo ci sono due possibilità: la cura, sfamare, o il potere, sfamarsi e affamare. Però il potere dà solo l’illusione di aumentare il tempo, perché tempo e potere appartengono a piani di realtà che non si toccano: il potere fa sentire di avere presa sulla vita ma in realtà non le aggiunge un secondo.
Evoluti ma cannibali
Sullo stesso piano del tempo – il mito platonico e il racconto evangelico lo mostrano – c’è invece la cura che, diventando amore, rende il tempo talmente pieno di senso che non si teme più di non averne abbastanza. Quando mi prendo cura della mia amata io sento di trasformarmi: il tempo suo e mio aumenta e non mi può essere più tolto, anche se apparentemente mi sembra di averlo «perso». È il paradosso evangelico: «Chi dà la sua vita la trova, chi la trattiene la perde». Ma dove trarrò le energie per curare senza sfinirmi? E poi chi si prende cura di me senza stancarsi? Non la Natura, ignara di me, ma il Dio a cui abbiamo rinunciato, finendo con il divorarci in proporzioni mai viste nell’ultimo secolo: noi, i più evoluti e progrediti, siamo diventati anche i cannibali peggiori nella storia. Dostoevskij lo aveva detto: «senza Dio tutto è possibile», perché senza essere curati non si sa come sfamarsi. Abbiamo rinunciato al Soffio che Cura ogni cosa. All’inizio di Genesi, prima che cominci la creazione, si dice che «lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque», e il verbo significa letteralmente «covare», e le acque, non ancora create, sono un modo di dire «caos». Questo Respiro «cova» ogni cosa, se ne prende cura perché diventi se stessa.
È solo una favola consolatoria o c’è qualcosa di vero? Bisogna farne esperienza, questa per me è l’unica via, anche perché tutte le altre, dettate dalla fame, non funzionano: successo, soldi, potere hanno sempre «respiro corto» e portano con sé «affanno». O troviamo ogni giorno il tempo per lasciarci covare (curare), cioè per ricevere questo Soffio infinito, o saremo i morti viventi che non a caso popolano film, serie, videogiochi e romanzi. Senza cura la vita non ha senso, perché moriamo di fame (di tempo) e sopravvive solo il più forte, cioè chi mangia di più. Ma io non sopravvivo divorando gli altri, ma perché c’è un Soffio Curatore che mi ha voluto speciale: unico e irripetibile. E altrettanto unica e irripetibile voglio che sia la mia risposta, voglio sorprendere persino Dio, come un giardiniere si sorprende del fiore che sboccia anche se è lui stesso ad averlo piantato. Ognuno di noi è chiamato a creare, con e per gli altri, ciò che solo lui può essere e fare, come mi diceva qualche giorno fa un’amica che si prendeva cura del suo bambino di dieci giorni, vincendo le leggi del tempo: «Ora c’è e ci sarà per sempre».
Il caos diventa Giardino
Solo l’imprevedibile collaborazione con il Soffio (viene da dire che la vita è una co-spirazione per fare altra vita, la co-munità nasce da questo, vuol dire infatti dono, munus, comune), cioè nella Cura, dà respiro al mondo. Io, così limitato, desidero respirare il Respiro che cova il caos e lo rende vita, perché è Amore-Cura che trasforma me in Cura-Amore. Attraverso di me, di noi, uniti in questo respiro, un pezzettino di caos (una classe, il bianco di una pagina, la paura della mia amata, il dolore di un amico) può diventare Giardino e il tempo moltiplicarsi come i semi nel frutto: in ogni ghianda c’è un bosco intero. Solo così mi sento Amato sulla Terra e Amante della Terra. E anche se, come nella canzone di Battisti, «l’universo trova spazio dentro me» però «il coraggio di vivere quello ancora non c’è». Questo coraggio non è una magia, ma la Cura: una libera scelta di come vivere perché il mondo possa «venire al mondo». Questo coraggio è quello di una donna in Furore, il capolavoro di Steinbeck: Rose of Sharon. Il suo nome è un nome parlante che viene dal mondo biblico: un fiore che cresce nel deserto, il nome dell’Amata del Cantico dei Cantici, immagine dell’anima amata da Dio e che lo ama. Rose che, nella grande depressione americana degli Anni ‘30, ha da poco partorito tra mille difficoltà, pur di salvare uno sconosciuto che sta morendo di fame, decide di fargli bere il latte dal suo seno. La cura fa fiorire il deserto e crea un mondo inatteso, sorprendente, vivo, bello. O si divora o si cura: a ognuno di noi è chiesto di scegliere da che parte stare, non ci sono vie di mezzo per «respirare» e «far respirare» questo mondo. E per poter dire, alla fine: nulla è andato sprecato, tutto il tempo che avevo si è trasformato in amore.
Fonte: Alessandro D’Avenia | Corriere.it