È successo a Rovigo pochi mesi fa. In una scuola superiore, una professoressa diventa il bersaglio di qualcuno della classe che la colpisce due volte con un fucile ad aria compressa, all’inizio e alla fine della lezione. Nel frattempo viene girato un video poi condiviso sui social e quindi reso pubblico. Ora la professoressa vittima ha rilasciato un’intervista in cui ha dichiarato di aver denunciato l’intera classe per tutelare la sua dignità e quella della categoria dei docenti.
Nell’intervista sottolinea che nessuno degli studenti – tranne uno – si è scusato con lei. Nessuno si è assunto la responsabilità del gesto commesso. Nessuno ha rotto il patto di omertà, rivelando il nome del responsabile. Nessuno si è preso la responsabilità di aver reso pubblico, postandolo sui social, un episodio così umiliante e senza senso. Sembra anche che nessuna famiglia sia intervenuta in alleanza con la docente per ricostruire un patto di alleanza tra scuola e famiglia e aiutare i ragazzi a comprendere l’enormità dell’errore commesso. Aggredire una persona alle spalle, senza motivo, per fare uno scherzo, nell’ilarità generale: io lo definirei bullismo al contrario. Proprio mentre tutto il mondo adulto sta cercando di creare ambienti educativi in cui tra pari ci si relazioni con rispetto, spirito solidale e cooperativo, scopriamo che gli stessi ragazzi – che dovrebbero essere protagonisti di questo movimento preventivo – trovano divertente fare i bulli con un adulto, umiliarlo e metterlo a rischio (la prof. ha dovuto ricorrere alle cure del Pronto aoccorso).
A me sembra una concatenazione di eventi dove tutti sono sconfitti e non c’è alcun vincitore. È certamente sconfitta la professoressa che deve denunciare un’intera classe di alunni. Una denuncia è un atto estremo verso qualcuno che ha leso i tuoi diritti in modo così irreparabile da non trovare altra via di recupero e riabilitazione, se non quella legale. Significa che nella relazione tra me e te, ciò che è accaduto non è uno sbaglio madornale, ma un potenziale reato per cui io non ho altro modo di tutelarmi, se non per vie legali. Succede a volte che un genitore chieda l’intervento delle forze dell’ordine o della legge contro un figlio. Succede quando un figlio è violento e picchia i suoi genitori. Succede quando un figlio usa droghe e ruba soldi ai suoi genitori. Sono casi estremi, in cui l’adulto non sa più come arginare, nella relazione, il totale ribaltamento dei ruoli, la negazione di ogni forma di affetto e rispetto. A me, sembra che questo sia ciò che i fatti accaduti nella scuola di Rovigo suggeriscono.
Non comprendo come mai famiglie, scuola e studenti non siano, in questi mesi, riusciti ad avviare un processo riparativo e riabilitativo che permettesse alle parti coinvolte di far succedere alcuni passaggi inevitabili e necessari, senza il ricorso alla legge. Intendo: chiedere scusa, assumersi la responsabilità dei gesti compiuti, rompere il patto di omertà per tutelare il bullo, costruire una rete nella comunità adulta in grado di far capire ai ragazzi che esiste un limite e che gli adulti sono sufficientemente autorevoli e competenti da permettere agli studenti di comprenderne il significato e diventare capaci di rispettarlo. Per fare tutto questo occorre parlarsi, confrontarsi, dialogare, sentire che chi vive al mio fianco è parte di una squadra orientata verso obiettivi comuni che servono a tutelare il benessere di tutti. Se ciò non accade, se non esiste la squadra, ci si trasforma in branco. La denuncia della prof. di Rovigo è una sconfitta per tutti: perché sembra dimostrare che in quell’aula non c’è una classe, non c’è una squadra, ma c’è un branco.
Fonte: Alberto PELLAI | FamigliaCristiana.it