Come aiutare in ambito educativo le persone che si sentono «transgender»
Sono finora 189 gli istituti superiori e 41 le università ad aver attivato in Italia la cosiddetta “carriera alias”, il patto di riservatezza che, grazie a un regolamento di istituto, permette agli studenti transgender di essere riconosciuti con un nome diverso rispetto a quello assegnato alla nascita. Una scelta opportuna? Il dibattito è esploso da un paio di mesi. Può essere che i dirigenti di queste 230 istituzioni scolastiche e universitarie, in cui studiano un paio di milioni di ragazzi e ragazze grazie all’impegno di migliaia di insegnanti, stiano prendendo tutti insieme un gigantesco abbaglio? I motivi della decisione sono noti, e in genere caratterizzati da delicata discrezione. Riconoscendo le diversità e cercando di offrire a questi ragazzi e ragazze la possibilità di evitare discriminazioni, episodi di bullismo, rischi di dispersione scolastica e altri soprusi, scuole e università di cui sopra ammettono che l’«incongruenza di genere» è un problema serio, a cui gli insegnanti in sintonia con le famiglie devono guardare con attenzione e offrire tutto l’aiuto possibile per accompagnare gli studenti più fragili in modo solidale e consapevole. Ci sono però associazioni convinte che il via libera alla “carriera alias”, come sostegno ai ragazzi che si confrontano con i problemi derivanti dall’identità di genere, sia un gravissimo errore. Pro Vita & Famiglia ha inviato una diffida a 150 scuole sostenendo che la “carriera alias” è «una proposta ideologica che rischia di rafforzare l’idea di essere nati nel corpo sbagliato, facilitando così percorsi per la transizione sociale o per il cambio di sesso, con bombardamenti ormonali e chirurgia spesso irreversibile». La risposta di chi la pensa diversamente non si è fatta attendere. Una trentina di associazioni del mondo Lgbt, ma non solo, ha lanciato un appello per respingere le diffide, sostenendo che l’adozione dei regolamenti per la “carriera alias” da parte dei vari consigli d’Istituto, «avviene nel pieno rispetto della legge e dell’autonomia scolastica».
Si sottolinea pure che «chi ha promosso questa iniziativa legale non ha nessun titolo per farla. L’impressione è che ciò faccia parte di una strategia generale che – ha detto Fiorenzo Gimelli, presidente di Agedo Nazionale, a nome di tutte le associazioni aderenti a questo appello – mira a diffondere un clima di paura e ostacolare qualsiasi avanzamento dei diritti nel nostro Paese. La finalità della “carriera alias” è quella di tutelare il benessere di giovani vite, non di diffondere ideologie che esistono solo nella immaginazione di chi vede complotti contro la propria visione del mondo». Dello stesso tenore una dichiarazione della Flc-Cgil che definisce l’iniziativa di Pro Vita & Famiglia «un intervento ideologico che vuole limitare la libertà e l’autonomia costituzionalmente garantire».
Invece a sostegno di ProVita & Famiglia si è mossa un’altra associazione, “Non si tocca la famiglia”, con una petizione online sostenuta anche da “CitizenGo”, dal titolo « Fuori il gender dalle scuole». Sarebbero già state raccolte e consegnate al Ministero all’Istruzione 50mila firme per chiedere l’intervento delle autorità scolastiche e fermare quello che viene definito un «disastro educativo», causato appunto dallo strumento che viene collegato al cosiddetto gender. Sul piano pratico probabilmente non succederà nulla, sia perché la legge sull’autonomia permette che le «istituzioni scolastiche, nel rispetto della libertà di insegnamento, della libertà di scelta educativa delle famiglie e delle finalità generali del sistema (…) riconoscono e valorizzano le diversità, promuovono le potenzialità di ciascuno », sia perché le accuse alla cosiddetta ideologia gender sono scarsamente sostanziabili trattandosi di un arcipelago culturale in cui è presente di tutto – rivendicazioni condivisibili e pretese insensate – ma, soprattutto, perché il vero problema non è la “carriera alias”, ma il disagio profondo di alcune migliaia di studenti e di universitari alle prese con una sessualità biologica che, secondo quanto loro dichiarano di sentire, non corrisponde a quella interiore, psicologica.
I genitori, gli insegnanti e gli educatori devono decidere come stare accanto a questi ragazzi. Se si sceglie la strada dello scontro totale, come stanno facendo, ciascuna dalle proprie posizioni, alcune delle associazioni citate, gli unici a pagarne le conseguenze saranno i ragazzi e le ragazze transgender o che tali si sentono e che per questo soffrono. E finiremo per lasciare andare alla deriva un pezzo di una generazione in cui le difficoltà legate all’identità personale, sessuale, di ruolo e di genere, sono più diffuse di quanto ci si immagini e sono il termometro di un malessere che finisce sempre più spesso per diventare problema di salute mentale. Dal 2018 l’Oms ha declassato questo disagio, prima noto come «disforia di genere », inserito nel novero delle patologie mentali. Ora viene definito «incongruenza di genere», cioè variante non patologica della sessualità umana. Al di là della battaglia lessicale, è fuori di dubbio che adolescenti e giovani, ma anche adulti, alle prese con le difficoltà psicologiche legate al genere, vivano momenti di profonda sofferenza che non si possono minimizzare o trascurare. Ascoltare i loro racconti e soprattutto raccogliere le testimonianze accorate dei genitori che vagano da un presunto esperto all’altro in cerca di aiuto e di conforto, suscita un’amarezza e una comprensione profonda della delicatezza e della non pretestuosità di questa realtà.
C ome aiutare quindi queste persone? Qui il nodo si fa più intricato. Nessuno può negare che l’incongruenza di genere sia una grande sfida per la medicina perché, se l’eziologia del problema (probabilmente un intreccio per ora inestricabile di fattori genetici, ormonali, biologici, culturali e ambientali) rimane un’ipotesi, anche la terapia è tutt’altro che assodata. Basta l’accompagnamento psicologico? Anche qui le opinioni sono discordi. Giusto, nei casi più estremi, ricorrere agli interventi ormonali? Certamente non nei bambini o negli adolescenti, anche perché le statistiche ci dicono con sufficiente certezza che, nella maggior parte dei casi, il problema, quando ben identificato e contenuto, può rientrare (la percentuale di desistenza va dal 66,7% al 93,3% in base ai diversi studi, T.D.Steensa, 2015, K.J.Zucker, 2018).
Negli ultimi decenni sono stati certamente commessi molti errori. Diagnosi affrettate e interventi precoci, soprattutto nei Paesi anglosassoni e del Nord Europa, hanno causato danni talvolta irreparabili, tanto da determinare svolte importanti all’insegna della prudenza, sia in Inghilterra sia in Svezia, i Paesi che più si erano spinti in avanti nell’interventismo terapeutico. Scelta che si è rivelata gravissima e devastante per migliaia di minori. Ma un conto è discutere serenamente una condizione certamente complessa e su cui non ci sono certezze scientifiche assolute, un altro è pretendere di imporre posizioni estreme, dal negazionismo assoluto in nome della “lotta al gender” all’accettazione facile e “normale”.
Stare accanto ai nostri figli, anche e soprattutto quando vivono situazioni di malessere legate all’identità di genere, significa riflettere, ascoltare, verificare sempre alla luce del principio di precauzione, senza né proclami né barricate. Purtroppo, sta cominciando ad accadere l’esatto contrario. Ma si può rimediare.
Fonte: Luciano MOIA | Avvenire.it