Ero sovrappensiero, e in ricerca sul pc ho scritto, invece di “bombardamenti Ucraina”, “bombardamenti Milano”. E lo so bene che inferno fu fra il ‘42 e il ‘44, nel cielo di questa città – in quanti me l’hanno raccontato. Ma il motore di ricerca in un istante mi spalanca una galleria di immagini, e io non ho la prontezza di ritrarmi, come chi abbia bussato a una porta sbagliata. Così in un pomeriggio d’inverno casco dentro a quelle foto, in cui ogni cosa sembra grigia come oggi. La scuola di Gorla, i suoi 180 bambini colti dalla morte mentre scendevano di corsa le scale. La Galleria, la Scala, macerie; ma, anche, quante povere case sventrate. E che polvere doveva alzarsi dalle rovine, in quelle notti d’agosto del ‘44, nell’aria già torrida di afa. Ma, più di tutto, mi colpiscono le facce degli uomini. La radunata oceanica che plaudeva al Duce, in piazza Duomo, nel ‘32. Parlava dall’alto di un podio altissimo innalzato davanti al portone centrale e rivestito di nero – quasi un catafalco, o una ghigliottina. L’immensa folla alzava la mano destra nel saluto fascista, cieca e ignara. I sorrisi, mio Dio, delle madri di famiglia, delle madri i cui figli sarebbero caduti al fronte. Poi, dopo le prime bombe, già le facce degli uomini diverse: del tutto spersi, alcuni, sui marciapiedi, davanti alla propria casa crollata. E i pianti di chi non voleva abbandonare i sepolti, e l’ansia di chi caricava su un carretto materassi, coperte e bambini, e scappava. I corpi inerti tratti a forza, per le braccia, dalle macerie. Kherson, Kiev, sì, ma moltiplicate per cento. E le flotte di bombardieri Alleati che in formazione ritornavano su Milano, il rombo cupo di cento motori, gli schianti, le esplosioni, il fuoco. Certo che le sapevo, queste cose: ma che impatto trovarle, vive, sul web, nei filmati d’epoca di uno speciale del Tg1 del 2021, “Milano in guerra”. Qui le facce degli uomini parlano, piangono, si muovono. Corrono le operaie verso le fabbriche dove confezionano munizioni, pedalano in bicicletta, gli occhi bassi; trema la gente ai controlli dei tedeschi nelle strade, dopo l’8 settembre ‘43. E di nuovo, nel cielo, quel rombo. Che vaso di Pandora ho scoperchiato scrivendo, per sbaglio sul pc, “Milano” invece che “Ucraina”. Non riesco a uscirne, arrivo fino al 29 aprile ‘45. Un’indescrivibile folla in piazzale Loreto. Oltre le prime cinque fila, forse, non vedono: non vedono Mussolini e gli altri a terra, cadaveri, ma sembrano tutti come ubriachi: urlano, gridano, spingono. E chi invece è proprio davanti a quei morti gli sputa sopra, li calpesta, li prende a calci, prima che vengano appesi a testa in giù, in fila, come bestiame in macelleria. Gioisce la folla. Sembra la stessa dell’osanna in Duomo al Duce, 23 anni prima: ma, adesso, che rabbia e ferocia ha addosso. E io, che ho aperto gli occhi alla ragione neanche vent’anni dopo, sento un pugno nel petto. La mia bella scuola, e noi bambine con i grembiuli candidi, e l’aroma fragrante delle michette fuori dai panifici, al mattino, e le tute blu come un esercito al lavoro. La pace degli anni Sessanta sideralmente lontana da questi film, in cui sono caduta per errore – devo proprio stare più attenta, mi dico. Ma un’ansia fredda, mentre chiudo il pc, mi soffia dentro. Quelle pellicole non sono più ombre di un evo remoto. Altri eserciti marciano, altri popoli acclamano, treni carichi di carri armati convergono in Ucraina. Il nostro male non finisce: cova, deflagra, si spegne. È lontano, e già vicino. In incubazione, altrove. (Fatele vedere quelle immagini di Milano in guerra, ai vostri figli).
Fonte: Marina CORRADI | Avvenire.it