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Il filosofo ucraino. Sigov: «Torniamo a studiare il totalitarismo»

«Figure come Arendt, Orwell e Sacharov ci insegnano a riconoscere la violenza autoritaria. Il nazismo è stato giudicato, il comunismo ancora no»

«La nascita di una nuova Europa». Anche solo come auspicio, è un sottotitolo tanto suggestivo quanto impegnativo quello scelto per l’ultimo libro del filosofo ucraino Constantin Sigov, scritto in collaborazione con la giornalista transalpina Laure Mandeville e appena uscito in Francia. Ma in ogni caso, Quand l’Ukraine se lève (“L’Ucraina s’è desta”, Talent) offre una preziosa interpretazione intellettuale dall’interno per comprendere le poste in gioco cruciali di fondo del conflitto in corso. Una guerra, secondo Sigov, che svela pure certe crepe troppo a lungo sottaciute della stessa costruzione europea. Fra i docenti in vista della più antica università ucraina, l’Accademia Mohyla di Kiev, Sigov aveva già scritto lo scorso marzo una lucidissima e vibrante “Lettera da Kiev capace d’attirare l’attenzione internazionale (in Italia, l’ha tradotta la rivista Limes).

Per spiegare la capacità eccezionale di resistenza dell’Ucraina di fronte all’aggressore, lei insiste molto sulla tradizione della dissidenza. Perché?

È un filo d’Arianna intellettuale per comprendere meglio, in effetti, da dove proviene la resistenza ucraina alle derive disumane che osserviamo. Si pensi all’esperienza del grande poeta Vasyl Stus, nato nel 1938, che aveva davanti una brillante carriera accademica a Kiev e fu citato per il premio Nobel, ma che rifiutò d’appartenere alla nomenklatura sovietica, il che gli valse una lunga detenzione nei gulag. Protestò fino all’ultimo, con un drammatico sciopero della fame che gli fu fatale nel 1985. Fra i grandi ammiratori di Stus, c’era pure Andrej Sacharov, che firmò molte lettere per la sua liberazione. È un esempio altamente simbolico, ma citerei pure quello del matematico e cibernetico Leonid Pljusc, che denunciò la disumanità sovietica. Fu salvato grazie a uno scambio e una volta in esilio a Parigi, scrisse fra l’altro Nel Carnevale della storia [uscito in Italia nel 1978 per Mondadori, ndr], che contiene diverse chiavi profonde per comprendere come l’Ucraina riesca anche oggi a restare in piedi.

Una dissidenza, storicamente, a cavallo dell’attuale frontiera fra Ucraina e Russia…

Si cita giustamente sempre il grande Sacharov e sono molto felice che il premio del Parlamento europeo a lui intitolato sia appena andato al popolo ucraino. Ma si dimentica troppo spesso che i dissidenti ucraini al modello dell’homo sovieticus sono stati i più numasta merosi. Era già una realtà sociologica nei gulag, come hanno sottolineato diversi ricercatori. Non a caso, proprio sullo sfondo di questa guerra, l’Europa sta aprendo gli occhi e comprendendo che è giunta l’ora per una nuova grande stagione della dissidenza, innanzitutto nei confronti di ogni violazione dei diritti umani e di quanti in Occidente proseguono i loro affari con un regime russo riconosciuto come terrorista dall’Europarlamento e da diversi Parlamenti europei. Queste attribuzioni sono giunte quest’anno, ma il regime uccide da 20 anni i dissidenti o i protagonisti di resistenze locali. Adesso, per aprire appieno una nuova stagione, occorre tornare a leggere pure quelli che hanno già dato la loro vita su questo fronte troppo spesso sottaciuto.

Interpretando sul piano filosofico quanto sta accadendo, lei cita spesso l’opera di Hannah Arendt. Come può aiutarci a capire?

Fu lei a cogliere in profondità il rapporto diretto fra il regime totalitario nazista e il regime totalitario comunista. Comprese che sul piano politico e antropologico, si tratta di due forme di una stessa matrice criminale mostruosa. La sua opera ha elaborato un quadro intellettuale per pensare le vere poste in gioco anche dietro all’attuale conflitto. In particolare, rileggendo Arendt, possiamo comprendere gli effetti disastrosi del fatto che, a differenza di quello nazista, il regime comunista non sia mai stato giudicato. Più che mai, ci rendiamo conto oggi dell’errore gravissimo di non aver messo a frutto le sue analisi fino in fondo. Oltre che a lei, dobbiamo ispirarci in generale a tutta una variegata “scuola” del pensiero totalitario, nella quale ha il suo posto pure una figura come George Orwell. Insomma, pensatori e scrittori che hanno denunciato la lobotomia della società a cui mira il totalitarismo nichilista. Di certo, abbiamo accantonato troppo presto questa tradizione che oggi si rivela di nuovo più che mai necessaria.

Lei ricorda che l’Ucraina è rimasta a lungo un angolo buio nell’immaginario di tanti europei, soprattutto occidentali. È oggi in gioco pure l’idea stessa d’Europa?

Questa guerra spinge nuovamente certi europei a pensare il continente in un modo più profondo, cioè in una chiave più intellettuale e spirituale, al di là dello stretto quadro politico- economico dell’Unione Europea. Si tende ancora troppo a dimenticare quanto hanno contribuito alla concezione dell’Europa pure intellettuali di Paesi fuori dall’Ue. Penso ad esempio al filosofo svizzero Denis de Rougemont, che nel Dopoguerra organizzò a Ginevra conferenze dai grandi effetti per pensare la nuova Europa. Questa tradizione ci ricorda che è necessario far respirare l’Europa e il suo ideale grazie a reti culturali, intellettuali ed etiche quanto più possibile ampie, al di là dei recinti istituzionali prestabiliti. Le stesse diplomazie non dovrebbero trascurare questa dimensione. Anche fuori dall’Ue, in Ucraina e altrove, ci sono potenziali latenti pronti a trasformarsi in fermenti preziosi per l’Europa di domani.

Ciò ha trovato riflessi, storicamente, pure nelle relazioni fra Italia e Ucraina?

Un simbolo di queste relazioni è senz’altro una delle più belle voci di sempre dell’opera lirica mondiale, una cantante ucraina divenuta poi pure una cittadina italiana, Solomija Krušel’nyc’ka, di cui si celebrano proprio quest’anno i 150 anni dalla nascita. Personalmente, il percorso di quest’interprete dal talento e dalla carriera eccezionali, applaudita nei più prestigiosi teatri italiani e di tutto il mondo, mi pare pure una metafora valida come lezione per tutta l’Europa. Per vincere ogni forma di sordità, occorre scoprire la voce degli altri. Oggi, l’Italia e l’Europa imparano a scoprire la voce dell’Ucraina e sono convinto che sempre più vi troveranno chiavi pure per ripensare un’Europa fedele ai propri valori, anche di fronte alla sfida, in realtà mai chiusa, contro la disumanità nichilistica.

Fonte: Daniele ZAPPALA’ | Avvenire.it

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